venerdì 22 Novembre 2024

Habeas corpus

Faccio fatica a scrivere sul carcere. Mi viene in mente un turbinio di immagini che concernono l’esilio e la colpa, il movente e il processo. Kafka allora, e il potere come incubo, la condanna senza conoscere le accuse. E poi Pavese con il romanzo Il carcere, l’esilio politico e i corti, soffocanti orizzonti. Dostoevskij con le Memorie del sottosuolo, dal socialismo giovanile alla prigionia in Siberia, i Quaderni del carcere di Gramsci, ossia la politica senza paure, le incisioni di Giovan Battista Piranesi e i suoi vortici di scale multidimensionali, la ronda dei carcerati dipinta da Van Gogh mentre si trovava in manicomio, quei prigionieri che camminano meccanicamente in circolo, opera ispirata a Gustave Doré…

Risuona nella mente L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo (1829). “Tutto è prigione attorno a me; ritrovo la prigione sotto tutte le forme, sotto forma umana come sotto forma di cancello o catenaccio. Questo muro, è prigione di pietra; questa porta, è prigione di legno; questi secondini, sono prigione di carne e ossa. Sono in balia della prigione. Mi cova, mi avviluppa con tutte le sue pieghe”. Ma sopra tutti svetta Se questo è un uomo di Primo Levi, e quel giorno con lui presso l’Enciclopedia Einaudi, lassù in quello studio, quando mi spiegò con uno sguardo la sua poesia: “Considerate se questo è un uomo… / che muore per un sì o per un no”. E le memorie di mio padre scritte cinquant’anni dopo essere tornato dal campo di prigionia di Siedlce, dove le donne polacche sfidavano i nazisti gettando le pagnotte al di là del filo spinato. E poi chissà perché Nick mano fredda, Paul Newman su quelle rotaie e la ballata della colonna sonora. Grande confusione tra realtà e fantasia, tra reclusione ed esilio, sequestro e schiavitù, prigionia e ostracismo, dal greco òstrakon, frammento di terracotta su cui veniva scritto il nome di chi doveva essere cacciato, degnamente o indegnamente, dalla patria. E la damnatio nominis o càpitis, l’essere cancellati dai registri della memoria non meritando nemmeno di appartenere alla lista dei perduti. Abitudine, questa, invalsa ancora tra le oscure conventicole delle istituzioni. Ma la più grande confusione è quella tra colpevolezza e innocenza, tra abuso di potere e pena meritata, tra giustizia e ingiustizia.

Il silenzio degli innocenti non esisterebbe senza le urla dei dannati, il pianto delle vittime non avrebbe senso senza il ghigno dei torturati, il miglio verde senza la pista del deserto, la preghiera in clausura senza
all’opposto la folla che reclama. I sommersi e i salvati, allora, per tornare con Primo Levi oppure quell’altro Levi, Carlo, il pittore e scrittore, confinato dal fascismo, autore delicato e acuto di Cristo si è fermato a Eboli. Il confino che diventa una occasione di arte, di lotta simbolica, di riflessione. E perché no, anche il corpo pensato come prigione dell’anima: così sostenevano Pitagora e Platone. E il corpo di chi è stato sequestrato, per vendetta o in vista di riscatto, la condanna a non poter vivere, non comminata da giudici ma da gente come te. Anche il sopruso è una prigione e così l’oppressione e l’educazione sbagliata che un po’ alla volta ti convince che non vali nulla. Tante le carceri senza sbarre, troppe le pene senza giudizio che ti allenano al senso di colpa, che ti caricano di rabbia e frustrazione.

E allora benvenuti all’Habeas corpus, caposaldo del nostro diritto occidentale, che riconosce da 350 anni l’inviolabilità della libertà personale del cittadino, il quale deve sapere di cosa è accusato e deve potersi difendere. Non rinunciamo dunque all’Occidente, non vergogniamoci noi che ne facciamo parte, anche se l’Occidente ha orrende colpe scritte nei registri della storia. In questo do ragione a Oriana Fallaci, non bisogna arretrare dai nostri principi, dal saper fare l’esame preciso dell’accaduto, separando la ragione dalla sopraffazione e dall’oppressione, esercitando la critica invece del furore ideologico, e dell’odio cieco per cui non c’è riparo.

Una civiltà è come una persona, merita la prova d’appello, la richiesta di un perdono, l’occasione di un riscatto, il tempo di uno svelamento e di una ripresa. Ci si chiede se il carcere serve, se è più utile alla società o alla persona che è reclusa. Chiediamo che, se è la reclusione la condanna, e quindi la negazione della libertà di spostamento, allora a questa pena non se ne aggiungano altre, trasformando il carcere in un ambiente ripugnante per chi è recluso e per chi ci lavora. La pena da scontare sia come una malattia di cui sappiamo che esiste una via d’uscita ma bisogna che il malato possa collaborare perché la terapia funzioni. Non è però così se scatta la vendetta dei più, se il condannato ha davanti a sé non soltanto la sua colpa ma quella di altri che si accaniscono, che lo perseguitano. L’errore travolgente, irreparabile, d’altra parte, è che si debbano dare colpe anche agli estranei, a chi commette reati impuniti, a chi giudica trascurando altre responsabilità. Come se la propria colpa riconosciuta andasse commisurata alla libertà immeritata di altri. Ma io ragiono per astratto, non conosco la realtà vera di questa discarica sociale che è il carcere, come l’ha chiamata recentemente un esperto del settore. Io continuo con la fantasia, con l’immaginazione, questa forza che Aristotele diceva nascondere qualcosa di divino.

È come se esistessero due ordini di realtà, uno che ci permette di ricostruire le motivazioni e le dinamiche dei fatti criminali, l’altro, quello decisivo, che consiste nell’aprire un giudizio e nel comminare una pena, sino al culmine finale che consiste nell’accertare se essa è servita alla piena restituzione alla società di colui che è stato recluso. In carcere ci vanno i singoli mentre fuori del penitenziario vive una società plurima, multiforme, poliedrica. Per questo il tema in questione si presta a diventare oggetto di storie, mettendo a confronto la posizione del singolo con le dinamiche della società. La fantasia dunque, ad esempio, che mi fa pensare a Un giorno come tanti, film di Jason Reitman con Kate Winslet. Frank è un evaso che incontra nel general store un ragazzino a cui chiede aiuto. Ferito, verrà accolto e nascosto a casa sua dove vive con Adele, la mamma. Tra Adele e l’evaso nascerà una storia e i tre vivranno quattro giorni di felicità mista ad incubo dove il corpo si esprime al massimo. C’è il ragazzino disabile, figlio della vicina di casa, che gioca a baseball con il generoso Frank, i due amanti che ballano la rumba, la nuova piccola famiglia che impasta gioiosa una torta di pesche, l’evaso che si dà da fare con mille lavori manuali, Adele e Frank a letto insieme. Il corpo riprende così tutta la sua tridimensionalità in quei pochi giorni di libertà provvisoria e circoscritta. E allora per una volta avrà vinto l’Habeas corpus? Sì, speriamo dappertutto, in ogni caso, oui, yes, ja, da, sim, joo, nai, tak…

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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