In Italia le condizioni carcerarie, ormai da tempo, non sono delle migliori: dal sovraffollamento all’interno delle strutture ai tanti suicidi commessi, i problemi che caratterizzano gli istituti penitenziari del nostro Paese sono diversi. Se da un lato, però, gli stessi meritano di essere analizzati nel dettaglio così da comprendere l’entità del fenomeno, dall’altro per capire quali sono le criticità di fondo che contribuiscono a creare tali condizioni c’è bisogno di effettuare un’analisi approfondita delle falle del nostro sistema giudiziario e legislativo. È evidente, infatti, che buona parte dei problemi relativi alle condizioni carcerarie siano anche a monte, essendo diverse le criticità che caratterizzano da un lato i palazzi di giustizia e dall’altro l’ordinamento giuridico in termini di configurazione di determinate azioni in fattispecie di reato, che la legge espressamente punisce con sanzioni di tipo penale come appunto la detenzione.
I punti critici del sistema giudiziario
Per quanto concerne le problematiche che caratterizzano il sistema giudiziario, innanzitutto non si può non citare un rapporto della Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ), pubblicato lo scorso 5 ottobre 2022 e contenente dati e analisi sul funzionamento dei sistemi giudiziari di 44 Stati europei e di 3 Stati non situati in Europa (Israele, Kazakistan e Marocco), con il fine di misurare l’efficienza e la qualità degli stessi. Ebbene, dal rapporto emerge una sistema giudiziario pieno zeppo di punti critici per l’Italia, che tra un basso numero di magistrati, un alto numero di avvocati ed un elevato numero di giorni necessari per far sì che la giustizia faccia il suo corso non gode di certo di una situazione idilliaca. “L’Italia è caratterizzata da un elevato numero di avvocati”, si legge nel rapporto, in cui viene precisato che il nostro è il “Paese con il maggior numero di avvocati in valore assoluto (235.964, pari al 18% del numero totale di avvocati negli Stati e negli enti del Consiglio d’Europa)” e che il numero di avvocati ogni 100.000 abitanti è “quasi tre volte superiore” alla media dei paesi del Consiglio d’Europa. Nonostante ciò, però, “il numero di giudici ogni 100.000 abitanti (12) è inferiore alla media dei paesi del Consiglio d’Europa, così come il numero del personale giudiziario (36) e il numero dei pubblici ministeri (4)”, mentre i giudici di pace non vengono conteggiati non essendo considerati come dei “giudici professionisti”: una scelta del resto comprensibile, trattandosi di magistrati onorari che esercitano la professione a titolo temporaneo e che si occupano di un numero limitato di casi (i fatti lievi e di semplice valutazione). Volendo farsi un’idea più precisa della differenza tra i numeri italiani e quelli di altri paesi europei, però, bisogna specificare che i giudici italiani sono precisamente 11,9 ogni 100.000 abitanti e che molti paesi hanno numeri superiori di oltre 2 o 3 volte: in Germania, ad esempio, vi sono 25 giudici ogni 100.000 abitanti, mentre in Grecia ce ne sono 36 ed in Croazia 40,7. I pubblici ministeri, invece, in Italia sono esattamente 3,8 ogni 100.000 abitanti: un numero basso se paragonato a quello della Grecia (7 ogni 100.000 abitanti) o della Finlandia (7 ogni 100.000 abitanti) ed irrisorio se confrontato con quelli di nazioni come l’Ungheria (19 ogni 100.000 abitanti) o la Lituania (23 ogni 100.000 abitanti).
Insomma, il succo del discorso è il seguente: in Italia ci sono molti avvocati ma pochi giudici, e la logica conseguenza è che i tempi della giustizia risultano essere alquanto lenti. Per arrivare all’emissione di una sentenza di primo grado nelle cause penali, infatti, nel nostro Paese bisogna attendere mediamente 498 giorni, mentre per le sentenze di secondo grado i giorni che passano sono 1.167 e per quelle di terzo grado 237. Numeri evidentemente non positivi per il Belpaese, che si pone così largamente al di sopra dello standard europeo: mediamente, infatti, in Europa servono 149 giorni per l’emanazione di una sentenza penale di primo grado, 121 giorni per quella di una sentenza di secondo grado e 120 giorni per l’emissione di una sentenza di terzo grado. Non sarà un caso, dunque, se all’interno del rapporto si legge che “anche se la durata complessiva dei procedimenti è diminuita costantemente dal 2012 al 2018”, il problema principale relativo alla “efficienza giudiziaria in Italia rimane l’eccessiva lunghezza dei procedimenti”. Certo, bisogna tenere conto del fatto che nel 2020 (l’anno al quale sono aggiornati i dati del rapporto) a causa della pandemia e della chiusura temporanea dei tribunali la loro efficienza “si è indebolita rispetto agli anni precedenti”, motivo per cui la situazione dovrebbe “migliorare una volta che l’emergenza sanitaria si sarà stabilizzata”. Tuttavia ciò non significa ovviamente che la situazione relativa alla lentezza dei processi non possa dirsi preoccupante, visto che anche negli anni precedenti (in cui appunto non vi era l’attenuante della pandemia) seppur la situazione fosse in progressivo miglioramento l’Italia si poneva al di sotto della media europea: nel 2018, infatti, in Europa bisognava aspettare mediamente 122 giorni per le sentenze penali di primo grado, 104 per quelle di secondo grado e 114 per quelle di terzo grado, mentre nel nostro Paese dovevano rispettivamente passare 361, 850 e 156 giorni.
Volendo infine comprendere in che modo i procedimenti arretrati impattino sul sistema giudiziario italiano, bisogna rifarsi alla relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 a firma del primo presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio. Secondo quanto sottolineato all’interno del rapporto, infatti, “a livello nazionale, in tutti gli uffici giudiziari giudicanti e requirenti, il numero dei procedimenti penali nei confronti di autori noti pendenti al 30 giugno 2021 era di 2.540.674 unità”: un numero che inevitabilmente incide sulla lentezza dei processi, essendo evidentemente elevato nonostante una lieve inversione di tendenza. Il numero, infatti, è “in decremento (-3,8 %) rispetto alle 2.640.616 unità del 30 giugno 2020”, il che conferma una “costante, seppure lieve, flessione delle pendenze che negli ultimi tre anni sono diminuite di circa 130.000 procedimenti (-5% circa) anche grazie alla riduzione delle nuove iscrizioni che, al di là del periodo di maggiore virulenza della pandemia (2020) che ha indubbiamente inciso sulle attività criminali, sono comunque stabilmente in calo”. Del resto, a quanto pare il miglioramento non si può certo attribuire ad una migliore produttività dei processi, intendendo con tale termine il numero di procedimenti definiti, il cui valore assoluto è “sostanzialmente stabile nell’ultimo biennio (oltre 2.300.000 procedimenti all’anno)”.
L’eccessivo utilizzo della custodia cautelare
Tra i problemi derivanti dal basso numero di magistrati, oltre che la lentezza dei processi c’è con ogni probabilità anche quello dell’eccessivo utilizzo della custodia cautelare. Nel fornire alcune indicazioni sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero garantire i diritti procedurali degli indagati e degli imputati soggetti a custodia cautelare nonché migliorare le condizioni di detenzione, la Commissione europea ha infatti recentemente riportato una serie di dati da cui emerge che il ricorso alla custodia cautelare – che dovrebbe essere una “misura di ultima istanza” – viene effettuato in maniera massiccia in Italia. Relativamente alla “percentuale di detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria”, infatti, stando ai dati del 31 gennaio 2021 il nostro Paese si colloca tra i 7 Stati membri in cui “si registra un tasso molto elevato”, grazie ad una percentuale di detenuti che non stanno scontando una pena definitiva pari al 31,5% della popolazione carceraria.
Il Belpaese, però, si distingue in senso negativo anche per quanto concerne la durata media della custodia cautelare, essendo inserito tra i paesi in cui la misura viene applicata per più tempo. Mediamente infatti – stando ai dati relativi al 2020 – in Italia la custodia cautelare dura 6,5 mesi, il che fa sì che solo la Slovenia (12,9 mesi), l’Ungheria (12,3 mesi), la Grecia (11,5 mesi) ed il Portogallo (11 mesi) si pongano al di sopra del nostro paese, mentre la Bulgaria (6,5 mesi) è quinta a pari merito con il Belpaese. Certo, va precisato che mancano i numeri di alcuni Stati membri non avendo determinati paesi “fornito cifre in merito”, ma essendo appunto questi i dati a disposizione ci si deve rifare per forza di cose a tale analisi per farsi un’idea sulla durata della custodia cautelare in Italia. Ben consapevoli che la classifica potrebbe essere diversa se venissero aggiunti i numeri dei paesi mancanti, ad oggi bisogna dunque prendere atto del fatto che il Belpaese si collochi tra gli Stati membri messi peggio. Ad ogni modo, però, il fatto che in Italia i tempi siano più lunghi di quelli di molti altri paesi lo si può dedurre anche dal rapporto SPACE del Consiglio d’Europa, secondo cui la durata media della detenzione per coloro che non stanno scontando una pena definitiva nel 2020 era di 4,5 mesi in tutti i paesi dello stesso. Un dato che lascia poche giustificazioni all’Italia ed ai suoi 6,5 mesi, essendo il numero dei paesi rappresentati molto più elevato di quelli appartenenti all’Unione europea: il Consiglio d’Europa, infatti, è un’organizzazione internazionale estranea all’Unione europea e di cui fanno parte in totale 46 Stati, tra cui anche i 27 dell’UE.
Le problematiche legate alle fattispecie di reato
Una volta analizzati i problemi legati al sistema giudiziario, bisogna porre la lente di ingrandimento sulle criticità tipiche del sistema legislativo in ottica fattispecie di reato, che la legge espressamente punisce con sanzioni di tipo penale quali appunto la detenzione in carcere. Tra le tante fattispecie di reato esistenti in Italia, ve ne sono alcune che contribuiscono in maniera importante al riempimento delle carceri, tra le quali troviamo però sia condotte lesive o violente che altre non violente. Come riportato dal Ministero della Giustizia, infatti, nella top 3 dei reati che hanno causato la detenzione nel 2021 troviamo i reati contro il patrimonio (come il furto) che hanno prodotto 31.009 detenuti, contro la persona (come l’omicidio) che ne hanno generati 23.611 e quelli in materia di stupefacenti (come lo spaccio) responsabili di 18.942 detenuti. Proprio questi ultimi meritano di essere analizzati nel dettaglio, contribuendo ad incrementare in maniera importante il numero dei presenti in carcere pur non trattandosi spesso di condotte particolarmente allarmanti dal punto di vista sociale. Il Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R n.309 del 1990) fa infatti sì che circa il “30% dei detenuti entri in carcere per detenzione o piccolo spaccio”: a sottolinearlo è l’ultima edizione del Libro Bianco sulle droghe, un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico, definito come il “principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri”.
Nello specifico, al suo interno si legge che “10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo Unico” – il quale punisce la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope – e che tali numeri costituiscono precisamente il “28,3% degli ingressi in carcere”. Molte delle persone che ogni anno entrano negli istituti penitenziari per la violazione dell’art. 73, inoltre, a quanto pare vi restano, visto che la percentuale dei presenti per droghe è pari al 34,88% del totale. Certo, “sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo Unico (spaccio)”, il quale determina 11.885 presenze, mentre sono “in aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe)” così come coloro che sono detenuti “esclusivamente per l’art. 74”: rispettivamente 5.971 e 1.028 persone. Nonostante ciò, però, l’impatto dell’art. 73 è comunque indubbio: basti pensare che “senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati ‘tossicodipendenti’ non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane”. Proprio i dati sugli ingressi e sulle presenze di questi ultimi, infatti, “si confermano drammatici”, visto che ad essere definito tossicodipendente è il “35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/12/2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti ‘certificati'”: si tratta del “28,16% del totale”, cifra che rappresenta uno storico “record percentuale”. Da menzionare, infine, le conseguenze sulla giustizia del Testo Unico sugli stupefacenti, con le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’art. 73 e 74 che “sono rispettivamente 186.517 e 45.142”. “In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani”, viene dunque precisato nel rapporto, in cui viene specificato altresì che – probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia – tale dato “si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte”.
I profili di illegalità del sistema penitenziario
Detto ciò, le condizioni carcerarie in Italia non solo come accennato non sono delle migliori, ma sembrano anche essere dubbie dal punto di vista giuridico. A tal proposito, innanzitutto non si può non citare la cosiddetta “sentenza Torreggiani” con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – un organo giurisdizionale internazionale – nel 2013 aveva condannato il Belpaese proprio a causa del sovraffollamento delle carceri. La sentenza, arrivata in seguito a sette ricorsi depositati da altrettanti detenuti dei penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza ed aventi ad oggetto le pessime condizioni con cui lamentavano di aver fatto i conti in carcere, aveva infatti non solo riconosciuto loro il diritto al risarcimento per i danni morali ma aveva anche giudicato incompatibile la situazione carceraria italiana con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti). Oltre a ritenere sostanzialmente inaccettabili le condizioni carcerarie dei ricorrenti, la Corte aveva infatti constatato che il sovraffollamento carcerario in Italia non riguardasse “esclusivamente i casi dei ricorrenti”, definendolo come un problema di carattere “strutturale e sistemico”.
A quanto pare, però, a distanza di quasi 10 anni dalla sentenza le condizioni carcerarie continuano ad essere estremamente critiche: basterà ricordare che – come sottolineato nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione – a fine Marzo 2021 i detenuti nelle nostre carceri erano 54.609. “Il tasso di affollamento ufficiale medio era del 107,4%”, afferma in tal senso Antigone, sottolineando però che “entrambi questi aggettivi, ufficiale e medio, vanno tenuti ben presenti”. Da un lato, infatti, l’associazione precisa che “nei fatti, a causa di piccoli o grandi lavori di manutenzione, la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale”, e dall’altro specifica che “in alcune regioni il tasso di affollamento medio è decisamente più alto (Puglia: 134,5%, Lombardia: 129,9%) mentre alcuni istituti presentano tassi di affollamento analoghi a quelli che si registravano al tempo della condanna dell’Italia da parte della CEDU”. Per rendere l’idea, “a fine marzo l’affollamento a Varese era del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165%”, mentre “a Brescia ‘Canton Monbello’ addirittura del 185%”.
Come se non bastasse, però, le condizioni carcerarie non solo sembrano essere tuttora in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche con la nostra stessa Costituzione. Quest’ultima, infatti, all’art. 27 sancisce non solo che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” ma anche che esse “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un fine che però risulta difficilmente perseguibile in virtù degli attuali dati, dai quali oltre al sovraffollamento emergono anche 57 suicidi verificatisi tra i detenuti e che potrebbero in parte essere una conseguenza dei disagi e delle problematiche a cui gli stessi sono sottoposti. Antigone fa sapere – in virtù delle visite effettuate in 96 istituti penitenziari nel 2021 – che tra le altre cose in diverse strutture ci sono ancora delle celle non dotate di doccia, di un riscaldamento adeguato e di acqua calda, mentre in più di un terzo delle carceri i detenuti non hanno accesso settimanalmente alla palestra o al campo sportivo e nel 17% degli istituti visitati ci sono sezioni che non hanno spazi per la socialità. Considerando che, come sottolineato da Antigone, la capacità della detenzione di influire positivamente sul percorso trattamentale della persona “dipende anche dalle caratteristiche degli spazi comuni”, non si può non porre l’attenzione sul fatto che tali ambienti sembrino poco adatti alla rieducazione, cui le pene dovrebbero tendere secondo la Costituzione. Del resto, però, il fatto che le pene non assolvano appieno a tale compito pare essere dimostrato anche dal numero di carcerazioni precedenti: al 31 dicembre 2021, in Italia solo il 38% dei detenuti era alla prima carcerazione, mentre il restante 62% in carcere c’era già stato almeno una volta. Numeri, questi ultimi, che mostrano chiaramente una diffusa tendenza a commettere nuovi reati da parte dei detenuti.
[di Raffaele De Luca]