Vorrei iniziare con una curiosità: barbecue e pettegolezzo sono parole con qualche comunanza di significato. Barbecue è termine francese che indica una cottura della carne (meglio, dell’animale) sulla brace, dalla barba alla coda (e quindi al culo); pettegolezzo mescola, sempre in modo popolaresco e villano, in una etimologia immaginifica, la gola con l’aria del ventre e il derivante cattivo odore. In inglese rumor, per dire vociferazione, diceria, non si discosta troppo, pur richiamando l’aulico latino rumor populi (reputazione, voci che circolano). L’evocazione è di stampo barbarico, come il tempo in cui stiamo vivendo.
Il grande studioso russo Michail Bachtin si riferiva al basso corporeo, nel mondo medievale, come alla dimensione del carnevale con la sua variegata cultura comica popolare, dai divertimenti di piazza alle parodie, dalle ingiurie contro re e governanti alle varie forme del ridere e del gioco, con al centro la burla, il corpo, la sessualità; il tutto in opposizione alla cultura ufficiale, della chiesa e del mondo cavalleresco.
La carnevalizzazione, bisogna tuttavia sottolineare, veniva esercitata più come atto della vita che come spettacolo, più come follia che come alternativa, più come gioco che come rappresentazione. Ora, nei nostri anni, questa modalità è entrata a pieno titolo nell’arena del potere e nelle sue forme di celebrazione, comprese quelle dei media, tanto che si è potuto parlare di carnevale permanente.
Il grottesco appare come una forte chiave interpretativa, ma con le dovute precisazioni. Se infatti, in una prima fase della nostra cultura, nel Medioevo e nel Rinascimento, il grottesco si afferma in tutta la sua purezza e ambivalenza, e corrisponde alla grande tradizione del realismo comico e del comico popolare dove il riso ha una funzione eminentemente liberatoria (dalla paura della morte alla insofferenza delle gerarchie e del potere), nella fase moderna il grottesco si impone nella sua forza puramente critica e negativa e si avvicina alle forme del mostruoso, del raccapricciante, del gotico romantico, del noir, fino al tragico contemporaneo.
Il punto di snodo, tra queste due epoche, è proprio determinato, genericamente parlando, dalla cultura classicista e da quella illuministica che sembrano abbandonare ogni forma di ambivalenza in favore delle virtù del rigore e della ragione. Ma è proprio in questo snodo che si sviluppano le commedie della chiacchiera e le localizzazioni del pettegolezzo in nuove aree e luoghi sociali.
Anche le intercettazioni, con i loro casi intimi clamorosi – da clamor, parola latina ancora e Clio la sua dèa, padrona e sovraintendente della notorietà – con le vicende costruite sull’insinuazione e sulla maldicenza, backstage e fuori-onda rivelatori ecc. – vanno ricondotte ai loro retaggi ancestrali, alla attrazione per le disavventure altrui. Il tema esprime in modo inequivocabile quella potente miscela di anima e corpo, di pensiero e parola che presiede alla espressività umana, considerata dal suo lato più autentico.
Tutto ciò di cui stiamo trattando ha a che fare con la parola e con la verità. Dunque, la verità, in una concezione popolana, mediatica, non ha origini nobili bensì inquietanti modi di venire allo scoperto. E questo perché è stata occultata, perché è dura da digerire, da accettare.
La tradizione di stampo etnografico dice che la verità prorompe improvvisa e vani sono i tentativi di gestirla con gradualità e circospezione. E ha un’anima bastarda: la verità è linguistica, è dichiarativa, è nelle parole prima che nei fatti ma talvolta non ce la fa a esprimersi a dovere, e scaturisce sgrammaticata, senza controllo, corporea e non razionale. Spiritosa più che spirituale. Animale più che animosa.
Splendida la strepitosa apertura di Vanity Fair (La fiera della Vanità, 1848), romanzo di W. M Thackeray il cui nome è stato poi attribuito a un grande magazine di moda e scandalistico. L’ambiente mostra la scenografia di un’azione festosa ed è meravigliosamente precorritrice dell’attuale clima volgare dei social.
Godetevi dunque il parallelo con la rozzezza dei commenti on line.
“Quando il capocomico si siede sul palco davanti al sipario a contemplare la fiera, osservando quel luogo brulicante di vita, viene travolto da un sentimento di profonda malinconia. E pieno di gente che mangia e che beve, che amoreggia e che si accapiglia, che ride e che piange, che fuma e che bara, che si azzuffa e che balla oppure suona il violino; e poi ci sono attaccabrighe che fanno gli smargiassi, bellimbusti che ammiccano alle donne, furfanti che rubano borsette, poliziotti sempre allerta, ciarlatani che strillano davanti ai baracconi, campagnoli che guardano estasiati le ballerine piene di fronzoli e i poveri vecchi saltimbanchi impiastricciati di belletto, mentre individui dalle agili dita gli svuotan le tasche. Sì, questa è la Fiera della Vanità: senz’altro un luogo né edificante, né allegro, anche se molto chiassoso. Ammirate il volto degli attori e dei pagliacci appena finiscono il loro numero; e Tom il buffone che dietro la tenda si leva il belletto prima di sedersi a tavola assieme alla moglie e ai suoi figlioletti. Tra poco si alzerà il sipario, e lui sarà lì a far capriole e gridare: – Ehi, voi, tutto bene?”
Come spiegava Totò, non si può far ridere gli altri se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero comico senza aver fatto la guerra con la vita.
Potere e comicità, insomma, cioè miseria e nobiltà.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]