venerdì 22 Novembre 2024

La saggezza senza età

Jean Guitton, il filosofo allievo di Bergson, accademico di Francia risponde, quasi centenario a una serie di domande che coinvolgono l’etica, la scienza delle virtù, e parla – forse con reminescenze di Teilhard de Chardin – di una mutazione in corso della specie umana. L’intervista si chiude sul tema della vecchiaia e Guitton ammonisce sorridendo a non confondere il sogno e la felicità: “la felicità è nel cuore! E tocca a noi rispondervi nel segreto della vita” (Il libro della saggezza e delle virtù ritrovate, Piemme 1999, p. 304). Una vita che va ascoltata, colta nelle piccole cose sentendo il “desiderio di una realtà invisibile”.

James Hillman, lo psicoanalista junghiano, innovativo interprete dei miti antichi nello studio delle profondita’ psichiche dell’essere umano, suggerisce di non opporre la vecchiaia alla giovinezza ma di cogliere la sua vera natura. Invecchiare è un’arte e la vecchiaia è una qualità: “quella che avvertiamo negli oggetti e nei posti vecchi, nell’incontro con i vecchi amici, nel vedere vecchi film, nell’osservare un paio di vecchie mani al lavoro”.

Insomma, che cos’ha di vecchio un vecchio amore, che cos’ha di superato un sogno? Non sono però i sogni del futuribile che nutrono ma ciò che nel mondo si è già sedimentato, “la saggezza senza età, l’intelligenza dell’anima immanente in tutte le cose” (La forza del carattere. La vita che dura, Adelphi 2000, pp. 86-87).

Su questa linea si muove il saggio dell’etnologo Marc Augé, Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste (Raffaello Cortina 2015). Mi piace molto l’immagine che usano Augé e Hillman riferendosi ai libri e ai film che ci appaiono differenti quando li rileggiamo o li rivediamo perché la memoria scivola nelle sue derive, nei suoi meandri e rappresenta in fondo “un immaginare connotato dal tempo” (Hillman) che si perde nel breve termine per guadagnare invece il lungo termine, le reminiscenze più remote, la consistenza incerta del senza-tempo.

Si ritorna così all’antica Grecia, all’idea, tipica di una cultura orale, non scritta, che ci sia una Musa per il passato, la memoria, una per il presente, la fama e una per il futuro, la lettura del cielo. Ma hanno anche ragione gli sciamani andini quando sostengono che il destino è una eredità e che il mondo attuale è soggetto a forze oscure che vogliono cancellare il tempo, farci ricominciare daccapo, nella completa ignoranza spirituale, per poterci condizionare una volta fatta ‘tabula rasa‘ dei nostri desideri, delle nostre ambizioni, dei nostri bisogni.

Augé considera attentamente l’esperienza delle fantasticherie della memoria per cui “la scenografia del reale ha sempre qualcosa in più o in meno di quella proposta dal ricordo”. Il film rivisto più volte, ad esempio, è “il testimone irrecusabile della stupefacente capacità della memoria di dimenticare e reinventare” (p.76).

Nelle riflessioni di questi tre pensatori ci si allontana dallo schema positivista della vita come curriculum, come serie ordinata di fatti, competenze, risultati che dobbiamo consegnare e si fa strada la concezione di una vita aperta, sempre progettuale, anche contraddittoria: perfino nell’età davvero avanzata la mente dovrebbe escogitare qualcosa da realizzare, anche soltanto con la velleità di vederlo dinanzi agli occhi come reale, effettivo.

La vecchiaia appare dunque non soltanto come una serie di sintomi e di affezioni ma come la conquista di un carattere: “di un albero giovane non possiamo dire che cosa è finché non lo vediamo contorto nella sua forma. Fin dall’inizio sappiamo se quell’albero è una quercia o un acero, se è vigoroso o debole ma la sua forma propria deve ancora emergere” (Hillman, ‘Il piacere di pensare’, Rizzoli 2001, p. 141).

Analogamente a quanto accade alle persone, una tradizione di sapere è come un bosco di sequoie, che può esistere migliaia di anni e il legno di oggi rappresenta la pioggia e il sole di molti secoli fa: così scriveva Norbert Wiener, il pioniere della cibernetica, il profeta della intelligenza artificiale. Ma i cinici tecnocrati di oggi l’hanno dimenticato.

Nella voce “Persona” della Enciclopedia Einaudi Auge citava Lévi-Strauss: “Le persone d’età considerano di solito come stazionaria la storia che scorre durante la loro vecchiaia contrapponendola alla storia cumulativa di cui erano stati testimoni nei verdi anni”. Caratteristico il costante richiamo di Augé alle rappresentazioni primitive della persona che, a differenza dei nostri approcci analitici, non dissociano il fisico dallo psichico o l’individuale dal sociale. Si potrebbe discutere questo accento così radicale ma è probabile che la vecchiaia rappresenti proprio il ritorno a questa fusione. Dopo alcuni decenni di vita lavorativa, dopo l’accumularsi di esperienza e anche, non sempre, di risorse, dopo una concezione del tempo come carriera, come esecuzione di compiti, intervengono, sottolinea Augé, “le squisitezze del ricordo o dell’oblio” (p. 40).

La saggezza richiede tempo, va maturata si può offrire agli altri ma prima di tutto va cercata per se stessi. E la saggezza è strettamente apparentata con la felicità. Quando Sœur Emmanuelle, ultranovantenne, chiude l’ultima pagina della sua testimonianza, ‘Richesse de la pauvreté’ (Flammarion 2001) parla della fraternità come di un esultare. Negli anni in cui tutto sembra sfuggire, sostituire l’avarizia, l’accidia con il dono, con l’offrirsi fa parte di quella esigenza umana di riconoscersi negli altri.

Da un fronte differente, in quella misteriosa concordanza che si coglie tra concezioni opposte, Augé ammette: “il problema degli esseri umani è che, sì, vivono consapevolezze individuali ma hanno bisogno degli altri per esistere appieno” (p. 102).

Tutto questo per dire che una civiltà, come una persona, invecchia e decade soltanto quando perde la memoria o quando non sa adattare il proprio passato.

Nella biografia di Confucio viene detto che a cinquant’anni egli aveva sviluppato il lato spirituale della sua persona, che a sessanta le sue orecchie erano attente alla verità, che a settanta sapeva seguire gli impulsi del proprio cuore senza rischiare di agire male. È proprio così anche sul piano simbolico: nella lingua cinese l’ideogramma che significa ‘lunga vita‘ era spesso associato a quello che indica la ‘felicità‘ , articolato in una grande varietà di motivi decorativi.

Trasformando così il tempo in una decorazione, fra l’astratto e il concreto.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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