L’una di notte, dorme il piccolo paese e il torrente scorre mormorando sotto l’antico ponte. Ma il cantiere è insonne, immerso in un non-tempo che ignora l’alternarsi della luce e del buio, l’avvicendarsi delle stagioni. Sotto l’eterno giorno delle torri-faro. Le ruspe mordono la terra allargando la desolazione; là dove c’erano prati e foreste, frese e martelli pneumatici bucano la roccia, in una folle e implacabile corsa. Di tutto il meccanismo infernale la parte più indispensabile e, insieme, più trascurata sono proprio loro, le figurine che si muovono intorno ai macchinari, senza sosta, formiche infaticabili e anonime, ultime in graduatoria negli inventari del mercato.
L’una di notte, cantiere TAV di Voltaggio in Val Lemme. Salvatore lavora in galleria. La sua famiglia è lontana, in Calabria. Salvatore è uno dei tanti figli di una terra che, nella geografia di un Paese mai veramente unificato, continua a produrre emigranti, prima nelle fabbriche del Nord, ora nei cantieri delle Grandi Opere. Il lavoro è duro in galleria, la vita più che mai precaria. Si tira avanti minuto dopo minuto, in turni che sembrano infiniti. Tu scavi e non sai cosa ti troverai davanti.
Quei veleni che la terra nella sua materna saggezza cela da sempre nel suo ventre, se disturbati, possono minare la salute a poco a poco o agire all’improvviso. L’alba per Salvatore non arriverà; ad ucciderlo è il grisù, quello degli scoppi in miniera, il gas che si fa strada nella roccia frantumata e che, a contatto con la più impercettibile scintilla, diventa una bomba. Per rilevarne la presenza gli antichi minatori si portavano appresso un canarino in gabbia, perché la morte di quella infelice creatura desse loro l’avviso di pericolo, il segnale di fuga. Oggi dovrebbero esserci rilevatori meno cruenti e ben più sofisticati. Invece…
Morire di lavoro. Sui cantieri come Salvatore. Risucchiata dagli ingranaggi di una macchina orditrice, come Luana. In un campo di pomodori, sotto il sole a picco, stroncato dalla fatica e dalla disidratazione, come Mohammed. Morire di alternanza scuola-lavoro, come Lorenzo, Giuseppe, Giuliano…
Morti che non sono il frutto avvelenato di disfunzioni del sistema: sono il sistema. Quello che trasforma in merce da usare e buttare vita, diritti, saperi, bellezza, futuro. Quello che monetizza la salute, prospera sui bisogni e perpetua il suo dominio attraverso le guerre tra poveri.
Lavoro che uccide. E tu lo subisci perché, quel salario spesso miserrimo, certo impari a fatiche e pericoli, devi mandarlo a casa a fine mese, perché la tua famiglia possa camparci. E magari lo difendi contro chi denuncia l’inaccettabilità di quel lavoro, la sua pericolosità, la distruzione sociale e ambientale che da esso deriva, per te e per tutti.
Guerra tra poveri: ne è piena la storia del movimento operaio; anche su di essa il capitale fonda i propri profitti e la cosiddetta giustizia, se arriva, arriva tardi, a inventariare i cumuli di morti.
Eternit, Icmesa, Ipca, Tissen Krupp, Ilva, Caffaro… I veleni delle lavorazioni dalla fabbrica si allargano ai centri abitati, alla campagna circostante, inquinano l’aria, la terra, il cibo, si fanno malattia e morte per tutti, tranne che per il capitalista che da lontano, di tante tragedie incassa i profitti. Rispetto al ricatto occupazionale poco vale la voce di chi, spesso in solitudine, dissente.
Valle di Susa. Venaus 2005. Due di notte. Arrivano le truppe della repressione contro le persone di ogni età che, da più di un mese, resistono contro l’installazione del primo cantiere TAV in Valle. Al seguito delle truppe in assetto antisommossa ci sono loro, una decina di operai che dovranno recintare il cantiere. I manganelli picchiano duro, le ruspe abbattono barricate e tende. Vengono installate nella notte le recinzioni che due giorni dopo verranno abbattute da decine di migliaia di persone, tutto un popolo in lotta.
Assunti con contratti a termine e licenziati dopo sei mesi, sono ancora loro che portano avanti la parte più pericolosa e sottopagata del cantiere TAV in Clarea. Chiusi nel fortino dell’opera classificata come di “interesse strategico nazionale”, sono la carne da macello esibita a prova che “il TAV porta lavoro”. Li abbiamo visti manovrare le ruspe che hanno abbattuto decine di castagni secolari, devastato pinete e faggete, innalzato barriere invalicabili a protezione della grande mala opera. Uomini come Salvatore hanno scavato, giorno dopo giorno, il tunnel geognostico di sette chilometri nelle viscere dell’antica frana che, da seimila anni, offriva a intere generazioni ripari sotto roccia. Tunnel maledetto, invaso dall’acqua delle falde acquifere interrotte, non parete compatta, ma sequenza di massi inchiavardati per fermare i crolli; calore sempre più insopportabile man mano che si avanza nelle viscere della terra. Roccia di amianto e uranio, contro cui maschere e rilevatori di tossicità sono una tragica beffa.
Chi offre agli operai del cantiere sfruttamento e malattia con lo slogan che “il TAV porta lavoro” rappresenta noi come nemici… Non c’è dialogo possibile tra noi che li guardiamo oltre le reti e loro che vanno avanti a testa bassa, pochi e sperduti in una desolazione sempre più vasta.
Ma noi, anche per loro, continuiamo a resistere.
E la resa dei conti si avvicina: ce lo dice la natura che si ribella, con la desertificazione che avanza, l’impazzita vicenda delle stagioni, i cataclismi naturali….
La via d’uscita non la troverà certo il centro dell’impero: lì non sta la soluzione, ma il problema. Solo in una nuova alleanza tra oppressi, nella ribellione consapevole e solidale degli ultimi che si sono visti rubare vita, diritti e sogni, sta la soluzione, ardua ma non impossibile.
In fondo, contro un sistema che ha la parvenza invincibile ma la fragilità del gigante consunto dalle proprie nefandezze, può essere fatale un colpo d’ala…
[di Nicoletta Dosio – Oltre ad essere da sempre attiva in numerose lotte
sociali e politiche sul territorio piemontese, Nicoletta Dosio è uno dei volti storici del Movimento No TAV. Condannata ai domiciliari per aver partecipato a una manifestazione pacifica del Movimento, ma rifiutandosi di sottostarvi e divenire così “carceriera di sé stessa”, Nicoletta è stata imputata di almeno 130 evasioni, che le sono valse la condanna a oltre un anno di carcere presso il penitenziario di Torino]