martedì 5 Novembre 2024

Sono tutte storie?

La storia non è l’insieme dei fatti accaduti nel passato ordinati cronologicamente. La storia è la loro ricostruzione. Di conseguenza è sbagliato ritenere che il passato non si possa cambiare. Se il passato non lo si conosce, o meglio se non ci sono strumenti di controllo della attendibilità delle fonti e del materiale che è servito per la sua ricostruzione, chiunque può arrivare a dire che le cose sono andate in un modo o nell’altro. 

Scrivere storia è come fare un processo ai fatti, interrogarli come imputati, chiarirne i moventi, cioè gli ipotetici vantaggi ricercati, gli orizzonti possibili, la coerenza degli eventi. Ma soprattutto l’indagine storica, come quella della realtà delle cose, è saper lanciare ipotesi, vagliare le possibilità alternative, interrogarsi sullo sviluppo di ciò che è avvenuto.

Ma ci sono i documenti che parlano chiaro. I documenti parlano, è vero, ma bisogna stare attenti ai loro margini di errori, al fatto che, anche nella loro ufficialità, nascondono o esibiscono un punto di vista. Perfino gli atti notarili, ad esempio quelli di compravendita, rappresentano la conclusione di un accordo, la raccolta di documenti a suffragio non il risultato di una accurata indagine a partire da zero. 

Ecco allora farsi strada l’interpretazione, il lavoro intelligente sulle relazioni che intercorrono tra i fatti e le persone, sulla riduzione ai minimi termini della indeterminazione. La fisica quantistica ha mostrato che la verità dipende dai sistemi di riferimento e che questi possono modificare gli oggetti in esame. La nostra posizione sui fatti deve quindi necessariamente essere aperta, tenere conto di differenti punti di vista: una ricerca efficace non si limita ad accertare gli eventi ma a produrre nuova conoscenza, a partire soprattutto da dettagli, particolari, dati trascurati.

Benedetto Croce scriveva nel 1938 che l’opera della storia non consiste nella conservazione degli equilibri sociali e nell’eliminare i fatti che li turbano. Essa è invece “perpetua creazione di nuova vita e formazione di equilibri sempre nuovi” (La storia come pensiero e come azione, Laterza 1966, p. 172).

D’altra parte la storia non è soltanto il risultato dell’azione delle forze produttive, dello scontro fisico tra potenze, dei risultati di un inesorabile progresso. Radicalmente, secondo Nikolaj Berdjaev (Il senso della storia, 1922) “la storia non è un dato empirico oggettivo, la storia è un mito” (trad.it. Jaca Book 1971, p. 30). Nella storia, in altri termini, è presente un mistero, una concezione del tempo che non è fatta di semplici date, cause ed effetti, interessi in gioco ma di una logica speciale che si innesta nella ricorsività, nella irrazionalità della ripetizione di errori, nella dimensione metafisica, nelle tensioni ideali, nel bisogno insieme di certezze e di cambiamenti.

In ogni ‘oggi‘ il passato sembra definitivamente trascorso, il futuro non ancora nato e noi siamo chiusi nell’istante del nostro dubbioso presente.  Così osservava cent’anni fa Berdjaev, sottolineando che una grande forza, spirituale e materiale, può derivare dalla memoria, la forza che sprigiona azioni sul tempo e che conserva il nostro legame con i padri, con una tensione verso un ideale infinito. 

Nella storia non esiste una sola verità, un solo modo di agire e muoversi verso il destino che le forze imperanti hanno determinato, nei nostri giorni sempre di più in modo univoco, inesorabile.

Stare nella storia significa uscire dal determinismo imposto, ammettere e difendere la possibilità di sviluppi differenti, di soluzioni totalmente al di fuori del sistema dominante.

Stare nella storia significa scriverla, tentare di orientarla, agire, anche oscuramente, negli orizzonti di piccola durata per preparare alternative nella lunga durata.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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