Un sano ed efficace riutilizzo dei beni confiscati per un pregnante progetto di depotenziamento del potere mafioso: è proprio questo, nella cornice di un tempo storico in cui le organizzazioni criminali presenti sul territorio sparano poco e “fatturano” molto, uno dei principali obiettivi della lotta alla mafia. Al momento, i beni confiscati in Italia sono più di 54mila: sulla loro gestione, però, non mancano le zone d’ombra. Sia sulla mancata trasparenza troppo spesso rilevata nell’azione degli Enti chiamati a gestirli, sia rispetto all’effettivo riutilizzo in favore del bene comune cui l’Amministrazione è chiamata.
La situazione dei beni confiscati
A delineare l’attuale mappatura dei beni confiscati in Italia è stata l’associazione antimafia Libera, che in un rapporto ne ha censito le esperienze di riutilizzo sociale. Preliminarmente, la relazione dà atto di una importante differenza: quella tra i beni in gestione, cioè quelli sottoposti a confisca anche non definitiva (dunque ancora in attesa di giudizio dopo di impugnazione o ricorso), e i beni destinati, ovvero quelli che hanno terminato il loro iter legislativo, di cui fanno parte i beni trasferiti ad altre amministrazioni dello Stato per finalità istituzionali o usi governativi, oppure ai Comuni, alle Regioni, alle città metropolitane o alle Province per scopi sociali. In un primo momento, i beni sono gestiti da un amministratore giudiziario che viene nominato dal Tribunale; successivamente, dalla confisca di secondo grado, passano invece alla gestione diretta dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Ansbc). Secondo i dati presenti nel database dell’Agenzia nazionale, al momento i beni destinati sono 19.790, mentre i beni in gestione sono 34.529 (le aziende destinate risultano 1.961, le aziende in gestione 3.366).
Tra le Regioni con il maggiori numero di beni confiscati, spiccano la Sicilia (9535 in gestione e 7692 destinati), la Campania (3641 in gestione e 3102 destinati), il Lazio (3013 in gestione e 927 destinati) e la Lombardia (1678 in gestione e 1583 destinati). Chiudono invece la classifica Valle D’Aosta (9 in gestione e 30 destinati), il Trentino-Alto Adige (23 in gestione e 18 destinati) e il Molise (6 in gestione e 5 destinati).
Ad oggi, Libera ha censito 991 soggetti impegnati nella gestione dei beni confiscati alla mafia in 18 regioni su 20 e in più di 359 comuni. Tra questi, 227 si trovano al nord, 68 al centro e ben 696 al sud e nelle isole. Più della metà di questi soggetti (525) sono associazioni di diversa tipologia, mentre 217 sono le cooperative sociali. Troviamo poi 59 enti ecclesiastici (parrocchie, diocesi, Caritas), 40 associazioni temporanee di scopo o reti di associazioni, 31 fondazioni private e di comunità, 30 scuole di vari ordini e gradi, 26 consorzi di cooperative, 25 enti pubblici (fra cui aziende sanitarie, enti parco e consorzi di Comuni che offrono dei servizi di welfare sussidiario dati in gestione a soggetti del terzo settore), 17 gruppi scout, 13 società e associazioni sportive, 5 comunità e 3 enti di formazione e ordini professionali. Nel censimento non sono invece computati i beni immobili riutilizzati per finalità istituzionali dalle amministrazioni statali e locali.
Il 40% dei beni confiscati riguarda appartamenti, abitazioni indipendenti e immobili; il 19% terreni agricoli, edificabili e di altra tipologia (anche con pertinenze immobiliari); il 18% ville, fabbricati su più livelli e di varia tipologia catastale e palazzine; il 10% locali commerciali o industriali, capannoni, magazzini o locali di deposito. La percentuale rimanente è suddivisa tra box, garage, autorimesse, cantine, complessi immobiliari, impianti sportivi o strutture turistiche. Il 57% di tali beni viene reimpiegato con finalità di welfare e politiche sociali, il 27% per promozione culturale, sapere e turismo sostenibile, il 10% per agricoltura e ambiente, il 4% per produzione e lavoro e il 3% per attività sportive.
La normativa
Il principale obiettivo delle norme in vigore sui sequestri dei beni non è tanto quello di colpire il soggetto socialmente pericoloso, bensì di sottrarre i beni di origine illecita all’organizzazione criminale cui appartiene.
Su questo versante, il primo passo venne mosso – con incredibile ritardo – in occasione dell’entrata in vigore della Legge Rognoni-La Torre nel 13 settembre 1982 (la stessa che, per la prima volta, introdusse nel codice penale il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso). Il comma 7 dell’art.1 ha infatti disposto che “Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego”. L’approvazione di questa legge fu il frutto della sollevazione popolare levatasi dopo la morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982. Proprio Dalla Chiesa, in un’intervista rilasciata a La Repubblica un mese prima di essere ucciso, aveva dichiarato senza mezzi termini: “La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa ‘accumulazione primitiva’ del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.
Subito dopo l’era delle stragi degli anni Novanta, nell’ambito della stagione più “gloriosa” a livello di arresti e sequestri attuati dalle Procure nei confronti delle organizzazioni criminali, la legge n. 109/1996 – che ha appena compiuto 27 anni – aggiunse alle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniale norme specifiche sulla destinazione dei beni confiscati alla mafia, completando opportunamente, sul piano sistematico, il quadro legislativo.
Come delineato dal codice antimafia (decreto legislativo n. 159/2011), competenti a proporre l’adozione dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni di un soggetto ritenuto vicino alla criminalità organizzata sono il direttore della DIA, il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona e il questore. Se dalle indagini emergono ricchezze non giustificate dalle attività compiute e non proporzionate al reddito dichiarato, o si ritiene che esse siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego sulla base di sufficienti indizi, si richiede alla sezione misure di prevenzione del Tribunale il sequestro ai fini della confisca. Dapprima viene nominato l’amministratore giudiziario, che ha il compito di custodire, conservare ed amministrare il bene, anche con la finalità di incrementarne la redditività, il quale predispone apposite relazioni. Il bene diventa proprietà dello Stato italiano nel momento in cui la confisca è definitiva: a quel punto, potrà essere affidato all’Agenzia nazionale. Il controllo sul bene può essere mantenuto dallo Stato per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile o per essere utilizzato da altre amministrazioni pubbliche, oppure esso può essere veicolato agli enti locali, che potranno gestirlo in maniera diretta o assegnarlo in concessione gratuita ad associazioni del terzo settore.
Con le modifiche introdotte dalla legge n. 132/2018, si prevede l’autorizzazione da parte del Ministro dell’Interno (e non più del Presidente del Consiglio) per l’assegnazione per finalità economiche all’Agenzia nazionale, inoltre si ampliano i casi di vendita dei beni, mobili ed immobili, precisando, fra le altre cose, i criteri da seguire per le migliori offerte da presentare e i controlli di certificazione antimafia sugli acquirenti. Inoltre, si snellisce la procedura destinata a consentire la prosecuzione dell’attività di un’impresa sequestrata o confiscata attraverso la sospensione degli effetti della documentazione antimafia interdittiva “dalla data di nomina dell’amministratore giudiziario e fino all’eventuale provvedimento di dissequestro dell’azienda o di revoca della confisca della stessa, o fino alla data di destinazione dell’azienda”.
Le criticità
Eppure, su questo tema, non mancano punti di non ritorno. All’interno del rapporto, in cui Libera si propone di attuare un rigido monitoraggio civico sul rispetto, da parte degli Enti Locali, dell’obbligo di pubblicazione, sui propri siti internet istituzionali, dell’elenco dei beni confiscati trasferiti al loro patrimonio cui devono adempiere sulla base delle modalità indicate dall’articolo 48 comma 3 lettera c del Codice Antimafia, l’associazione denuncia infatti “la grande fatica che i comuni fanno a garantire la trasparenza delle informazioni e la loro piena fruibilità“, segnando addirittura un peggioramento rispetto alle passate edizioni della ricerca: su 1073 comuni monitorati, infatti, soltanto 392 hanno pubblicato l’elenco dei beni da essi controllati (il 63,5% non l’ha fatto). Per quanto riguarda gli Enti sovracomunali, invece, non pubblica gli elenchi il 50% delle province e città metropolitane destinatarie di beni confiscati: delle 6 regioni coinvolte, solo 2 adempiono a tale obbligo.
Ma i problemi, oltre alla mancanza di trasparenza degli Enti preposti al riutilizzo dei beni, investono anche la sostanza delle cose. Il nodo è quasi sempre costituito dalla mancanza di fondi pubblici volti alla ristrutturazione degli immobili confiscati, che sovente giungono alla confisca degradati e dunque poco appetibili. A fronte delle difficoltà dell’Agenzia nazionale, per gli enti destinatari è infatti spesso molto complesso ricercare e ottenere autonomamente fondi destinabili a tale scopo. Dai questionari compilati dai soggetti gestori, oltre a quella delle difficoltà economiche e burocratiche, emerge la criticità di frequenti danneggiamenti ritrosivi da parte del “nemico”. Numerose inchieste televisive e giornalistiche, negli ultimi anni, hanno inoltre svelato come, in numerosissimi casi riferiti a diverse regioni dello stivale, molti beni immobiliari confiscati alle compagini mafiose vengano rioccupati abusivamente dagli stessi soggetti cui sono stati formalmente sottratti. I quali, nonostante tutto, hanno buon gioco a utilizzarli come basi operative per continuare (spesso indisturbati) ad esercitare il controllo sul territorio.
Insomma, tra il dire e il fare – e, soprattutto, tra il “normare” e l'”applicare” – c’è sempre un mare magnum dalle onde alte e pericolose. A fronte di questo spaccato, non possono che fioccare gli interrogativi in merito alle priorità economico-sociali dello Stato italiano, anche e soprattutto a livello di impegno politico e investimenti monetari. Per togliere davvero “ossigeno” e influenza territoriale alle cosche, specie sul versante delle misure patrimoniali antimafia, la trasparenza e l’efficienza dovrebbero costituire vere precondizioni. Ma i fatti ci dicono che, pur avendo costruito un ottimo “architrave” normativo (anche grazie ad una nuova consapevolezza acquisita dalla società civile e dell’associazionismo, che hanno virtuosamente “spinto” sull’apparato istituzionale per modernizzare la lotta alla mafia), siamo ancora lontani dall’obiettivo.
[di Stefano Baudino]
Immagino che un certo numero di realtà immobiliari, situate in luoghi distanti dai centri ad alta densità abitativa, possa letteralmente essere raso al suolo con le ruspe, liberando superfici dove la natura possa nuovamente, nell’arco di una ventina d’anni, fare il suo corso.