Quando si parla d’impatto ambientale della moda, si punta immediatamente il dito sul mondo del fast fashion. Giustamente. Un sistema di lavoro basato sulla produzione a ciclo continuo di collezioni durante tutto l’arco dell’anno, con volumi impressionanti e con scarsa attenzione alla qualità, non è di certo un tocca sana per la natura (e nemmeno per l’uomo) e di etico non ha niente. Eppure, anche i signori del mondo del lusso e i grandi marchi, con le loro follie mascherate da maniacale ricerca della perfezione, fanno la loro parte, contribuendo ad alimentare un sistema fatto di sprechi e consumi insensati.
Un tempo le case di moda nate a cavallo degli anni ’70 e ’80, quelle fondate da rinomati stilisti e spesso gestite in maniera familiare, erano basate su principi riguardanti la qualità, la cura e la creazione di abiti e accessori dall’alto valore materiale e immateriale. L’obiettivo era di produrre capi in grado di durare nel tempo e realizzati seguendo i tempi della manifattura, dell’artigianalità e dell’ispirazione. Oggetti di lusso.
Ma il mito della crescita, della fame e dell’arricchimento facile, ha solleticato l’interesse di tutti; così, anche gli esimi esponenti del mondo del lusso hanno cominciato a comportarsi come marchi di prêt-à-porter. Iniziando a proporre i total look, moltiplicando le collezioni (passando dalle due uscite annuali alle quattro/cinque dei primi anni 2000, con i famosi flash intra stagionali) e incrementando i ritmi produttivi, con la produzione di grandi volumi e la distribuzione dei prodotti fuori da qualsiasi logica stagionale. Un ingrandimento esponenziale ha portato i marchi a mettere la loro firma su molte altre categorie merceologiche: dalla moda al beauty fino ai ristoranti, ma anche alberghi. Il tutto è stato possibile grazie all’acquisizione di questi brand da parte di holding quotate in borsa, ovvero grandi gruppi finanziari che hanno inglobato sotto di loro aziende e stilisti per aumentare i profitti (fuori da queste logiche, al momento, sono rimasti solo Prada, Armani, Moncler e Zegna in Italia, Burberry in Inghilterra, Chanel e Hermes in Francia), riducendo la moda a una macchina per produrre soldi. Spesso in maniera non etica e seguendo il modello tracciato dal fast fashion, dove per avere margini e profitti più alti (per pochi, di solito quelli al vertice) basta tagliare i costi. Ovviamente delocalizzando. Ma spesso seguendo anche una modalità tanto sofisticata quanto insostenibile: quella di una folle ricerca della perfezione, dietro alla quale si nascondono sprechi enormi.
Dal punto di colore ai rotoli abbandonati
Il primo dispendio di materie prime ed energia avviene negli uffici stile, in quei luoghi avvolti di glamour e mistero, dove si decidono le sorti delle fogge stagionali dei più. In minima parte alcune dinamiche filosofiche sono state rese note dal famoso monologo di Miranda ne Il diavolo veste Prada, che ci ricorda il valore sociale del ceruleo e di certe scelte stilistiche. Peccato aver sorvolato sull’impatto ambientale generato dai capricci di designer e stilisti in fase di progettazione, e sui minuziosi controlli qualità dove per vedere i difetti bisogna andare a cercarli con la lente d’ingrandimento.
Tra campioni e campionari infiniti iniziano i primi sprechi, sotto forma d’innumerevoli prototipi che vengono sdifettati e perfezionati fino allo sfinimento: centimetri in più o in meno da limare o aggiungere, un ricamo da spostare di qualche millimetro, il tono di celestino che non era del celestino giusto… A volte si tratta di dettagli impercettibili, altre volte di grossi errori da correggere. In tutti i casi, quasi sempre, è prevista la realizzazione di un contro-campioni multipli, che in termini pratici vuol dire altro tessuto, altri ricami, altre stampe, altri bagni di colore, altro lavoro. Tutto ciò moltiplicato per svariate centinaia di capi.
Questa è solo la punta dell’iceberg dello spreco. Si potrebbe parlare delle prove di stampa, dove per ogni pattern o disegno da mettere in collezione, sono stampate ingenti quantità di tessuto, solo ed esclusivamente per abbattere i costi (senza valutare il costo ambientale, ovviamente). Quel che avanza, da pochi metri a svariati rotoli, si abbandona, si brucia o si passa la patata bollente a stockisti, che si ritrovano con bancali pieni di materiali sospesi in una bolla, dove è vietata la vendita (la vecchia storia dei loghi che guai a vederli in giro), però bruciare sembra uno spreco e un crimine. E, in effetti, lo è. Ma il sistema, purtroppo, ancora non è responsabilizzato a sufficienza per i suoi errori e per i suoi peccati di leggerezza.
Questione simile ma con l’aggravante avviene nel tentativo di raggiungimento del punto di colore perfetto: un mezzo tono sopra o sotto da quello desiderato è causa di crisi isteriche nel reparto design, ma anche di un consumo di risorse ingenti, perché il processo tintorio richiede una discreta quantità di acqua. Questa devozione al dettaglio è venduta come precisione, ma somiglia tanto a un capriccio.
E via così, tra cambi repentini d’idee dal giorno alla notte che condannano stoffe preziose a un limbo senza fine e assurdi controlli qualità fatti con la lente d’ingrandimento, dove una minima imperfezione preclude l’utilizzo della materia prima in questione, che si trasforma immediatamente da risorsa a rifiuto. Se non è pazzia questa…
Insomma, la spasmodica ricerca di una perfezione irreale è solo la facciata luccicante di un settore, quello del lusso, che in realtà ne ha perso il senso più profondo. Quello di creare prodotti speciali, curati in ogni minimo dettaglio, senza tempo, eterni, capaci di trascendere il momento e andare oltre perché fatti per durare. Pezzi su misura, esclusivi, unici. Di Lusso. Che, a guardare bene, non sono più appannaggio di questi grandi gruppi, ma di piccoli grandi artigiani e designer indipendenti.
[di Marina Savarese]
L’unica cosa non perfettibile è, di questi tempi, il cervello umano.