Non fu soltanto Cosa Nostra a concepire ed eseguire la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui il giudice Borsellino venne assassinato insieme ai suoi uomini di scorta. Inoltre, la mafia non ebbe nessun ruolo nel furto dell’agenda rossa del magistrato, avvenuto nelle ore subito successive allo scoppio della bomba, che è invece da imputare a un’azione istituzionale. Sono queste le pesantissime verità partorite dal Tribunale di Caltanissetta, chiamato ad esprimersi sul gigantesco depistaggio che ha contraddistinto le indagini sull’omicidio Borsellino.
Lo scorso luglio, il Tribunale aveva dichiarato prescritto il reato di calunnia per due imputati, il funzionario di polizia Mario Bo e l’ispettore Fabrizio Mattei, essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra, e assolto un altro ispettore, Michele Ribaudo, in merito al depistaggio. Che però – anche dopo la storica sentenza del Borsellino Quater, che inquadrò nel questore Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002) il suo perno – è stato pienamente confermato anche dalle motivazioni di questo nuovo verdetto, foriere di ulteriori elementi cruciali rispetto a quanto già accertato.
Pur non riuscendo ad individuare le precise generalità dei responsabili, rispetto alla sottrazione dell’agenda rossa i giudici scrivono: “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra“. Secondo il Tribunale, ciò proverebbe “l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda”, essendo “indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre“. Insomma, la mafia non partecipò al furto dell’agenda: a carpirla dal luogo del delitto, tra brandelli di cadaveri, macchine fumanti e finestre in frantumi, furono uomini dello Stato.
Ma i giudici vanno oltre, sancendo che il “movente della strage e la finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse“. Infatti, “l’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Dunque, corpi estranei a Cosa Nostra non si sarebbero solo limitati a depistare le indagini, ma avrebbero direttamente preso parte, tanto “nella fase ideativa” quanto in quella “esecutiva”, al terribile eccidio. “Oltre ai tempi della strage, oggettivamente ‘distonici’ rispetto all’interesse di Cosa nostra – si legge ancora nelle motivazioni -, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della ‘paternità mafiosa’ dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa nostra, prima di tutto, come ‘risposta’ all’esito del maxiprocesso e ‘resa dei conti’ con i suoi nemici storici”. Un vero e proprio ribaltamento della narrazione dominante sulle cause della morte di Borsellino.
I giudici attestano chiaramente che la strage ha anche radici estranee a quelle mafiose. Soffermandosi sulla sottrazione dell’agenda rossa, infatti, asseriscono che “un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio”.
I giudici si soffermano poi sulla “presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa Nostra (che l’esecutore materiale della strage Gaspare Spatuzza, poi divenuto collaboratore di giustizia, incontrò nel garage in cui i mafiosi imbottirono di tritolo l’auto poi esplosa in via D’Amelio, Ndr)”, sostenendo che essa può spiegarsi “solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”.
Dopo tre decenni, al quadro si aggiunge dunque un altro importantissimo pezzo di verità. «Finalmente una sentenza conferma quello che dico da 30 anni – ha dichiarato Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e fondatore del Movimento delle Agende Rosse – e cioè che quella di via D’Amelio fu una strage di Stato e non solo di mafia e che l’agenda rossa fu sottratta da uomini dello Stato e non da uomini della mafia». Soddisfazione per l’emersione delle nuove verità giudiziarie e frustrazione per il mancato inquadramento dei responsabili, però, viaggiano a braccetto: «Questa sentenza descrive uno scenario, conferma il depistaggio ma non dice chi sono i colpevoli – conclude Salvatore -. Dice che è passato molto tempo ed è quindi difficile risalire ai responsabili. Per questo mi sento scoraggiato».
[di Stefano Baudino]
Secondo me ci sono politici ancora in vita che sanno molto su tutto questo.
Stupefacente! Ma il movente?