Da sabato mattina in Sudan sono in atto duri combattimenti tra le due fazioni militari che – di fatto – da alcuni mesi si contendono il controllo del Paese: l’esercito regolare, da un lato, comandato dal generale e capo del Consiglio sovrano del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e il comandante delle Rapid Support Forces (RSF), Mohamed Hamdan Degalo, detto Hemedti, vice di al-Burhan, dall’altro. Le RSF sono un potente gruppo paramilitare autonomo fondato nel 2013 sotto il regime del dittatore Omar al-Bashir, destituito nel 2019 in seguito alla rivoluzione della società civile sudanese che invocava una transizione democratica, ancora oggi però in stallo dopo il golpe del 2021 e gli attuali disordini che attraversano il Paese. Il grosso dei combattimenti si sta svolgendo nella capitale Khartum, ma si sono estesi a numerose altre città del Paese, tra cui la città di Port Sudan, sul mar Rosso. Entrambe le fazioni rivali sostengono di avere il controllo del palazzo presidenziale e dell’aeroporto, ma la situazione sul campo è ancora molto confusa ed è difficile dire chi abbia, al momento, il controllo del Paese. I due gruppi si accusano reciprocamente di aver attaccato le rispettive basi militari: l’esercito sudanese ha dichiarato che i paramilitari hanno attaccato le sue basi a Khartum e altrove, poco dopo che le milizie di Degalo avevano denunciato che i loro campi erano stati attaccati dall’esercito regolare. In particolare, le RSF hanno accusato l’esercito di aver attaccato una loro base nella capitale. Oggi si sono intensificati gli scontri nella capitale ed è stato chiuso lo spazio aereo.
Secondo quanto dichiarato su Twitter dal Comitato centrale dei medici sudanesi, è di 56 il numero di persone uccise negli scontri, nel frattempo salito a 100, mentre si registrano 595 feriti. La preoccupazione della comunità internazionale è che i combattimenti possano tramutarsi in una guerra civile, con importanti conseguenze non solo sulla regione, ma anche per l’Europa e i contendenti geopolitici dell’area. Il Sudan si trova immediatamente a sud dell’Egitto ed è un Paese strategico per quanto riguarda la questione migratoria, essendo uno dei principali punti di partenza dei flussi di persone che dall’Africa Subsahariana arrivano alla Libia per poi imbarcarsi nel Mediterraneo. Un possibile prolungarsi delle violenze potrebbe, dunque, incrementare i flussi migratori destabilizzando ulteriormente l’area ed esponendo l’Europa a sbarchi sempre più massicci. Anche in questa chiave va letto l’appello del governo italiano, dell’ONU, dell’Unione africana e della UE a cessare i combattimenti. In particolare, il governo italiano ha dichiarato che «si unisce agli appelli ONU, UA e UE perché cessino i combattimenti a Khartum e altrove, per la sicurezza del popolo sudanese e per risparmiare ulteriori violenze. Invita quindi le parti in causa ad abbandonare la via delle armi, e a riprendere i negoziati avviati da tempo, affinché il popolo sudanese esprima le proprie scelte nell’ambito di un processo elettorale».
L’estrema instabilità politica sudanese ha origine nella rivoluzione del 2019, quando la mobilitazione di massa della società civile sudanese ha portato alla rimozione dall’incarico di Omar al-Bashir, segnando la fine di uno dei regimi al potere più longevi in Africa. La sua destituzione doveva segnare l’inizio di una transizione democratica sostenuta dagli Stati Uniti e dall’Unione europea che, tuttavia, non si è mai realmente concretizzata, in quanto il governo del premier Abdollah Hamdok – succeduto a al-Bashir – era caratterizzato da forti tensioni tra gruppi civili e militari, quest’ultimi in buona parte ancora fedeli al regime precedente. Hamdok, con una spiccata propensione filoccidentale – dopo il suo insediamento, per la prima volta gli Stati Uniti hanno rimosso il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo e sono state riaperte le rispettive ambasciate nei due Paesi – aveva promosso un progetto di riforma dell’esercito per epurare i militari rimasti fedeli all’ex regime e velocizzare così i progetti di riforma ostacolati da quest’ultimi, in particolare dalle RSF, restie ad essere integrate nell’esercito regolare e a cedere parte del loro enorme potere economico e politico. Le RSF sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba, guidati da Degalo, fedeli al regime di Omar al Bashir che nel corso della guerra nella regione del Darfur, cominciata nel 2003, furono accusati di genocidio. Così, poco dopo l’annuncio della riforma dell’esercito, il 25 ottobre 2021 è avvenuto il golpe per mano dei militari e il generale al-Burhan ha preso il potere interrompendo la “transizione democratica”. In quella circostanza, il generale ha unito le forze col comandante delle RSF, Degalo, per rovesciare il governo civile: da quel momento, il Paese è governato da una giunta militare chiamata Consiglio Sovrano, di cui al-Burhan è il capo e Dagalo il secondo in comando.
Tuttavia, l’alleanza tra i due è durata poco e ora si contendono il governo della nazione: la giunta militare, guidata da al-Burhan, infatti, a causa delle pressioni internazionali, ha accettato un accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile in cambio di aiuti economici. Ma una delle condizioni dell’accordo è che le RSF si sciolgano e si integrino all’interno dell’esercito regolare, cosa a cui Degalo si oppone, temendo di perdere il suo potere. Da quel momento in poi i due generali hanno fatto capire di essere pronti allo scontro armato, ammassando soldati e rafforzando le proprie basi da settimane. Allo stesso tempo, Degalo già da tempo sta cercando di accreditarsi come un interlocutore affidabile presso i gruppi pro-democrazia per poter gestire la transizione al posto di al-Burhan, dopo avere dichiarato che il golpe del 2021 è stato un fallimento, in particolare per la situazione economica del Paese. L’attuale presidente della giunta, invece, si è fatto promotore di un riavvicinamento al movimento islamista e in particolare al partito di Bashir, il National Congress Party, mentre si è avvicinato maggiormente anche all’Egitto di al Sisi, del quale è diventato un alleato chiave contro l’Etiopia per via della costruzione e della messa in attività, da parte di quest’ultima, della Grande Diga della Rinascita.
Da questa mattina, secondo l’inviato speciale dell’Onu per il Sudan, Volker Perthes, «gli scontri si sono intensificati», mentre la cessazione delle ostilità di tre ore, che era stata concordata ieri per motivi umanitari tra l’esercito e le forze paramilitari di supporto rapido, è stata «solo in parte rispettata». Secondo “Sudan News”, oggi l’esercito regolare avrebbe ripreso il controllo dell’edificio dell’emittente radiotelevisiva nazionale, che ha riavviato le trasmissioni dopo un’interruzione di 16 ore. Intanto si continua a combattere nelle vicinanze del Palazzo presidenziale e del comando generale dell’esercito e sono ripresi i combattimenti a Merowe, nel nord del Sudan al confine con l’Egitto, dove ci sono stati nuovi scontri nelle vicinanze dell’aeroporto internazionale. Il peggioramento del conflitto lascia presagire l’inizio di una vera e propria guerra con gravi ripercussioni sugli equilibri regionali e, indirettamente, sul continente europeo e le dinamiche internazionali.
[di Giorgia Audiello]