La Costa d’Avorio è il più grande produttore di cacao al mondo: le sue coltivazioni coprono quasi la metà della domanda globale, impiegando nella terra fino a 6 milioni di braccianti. Molti di loro – nel biennio 2013-2014 erano quasi un milione e mezzo – quando raccolgono la prima fava di cacao non hanno neppure compiuto dieci anni e il cioccolato, in realtà, non l’hanno nemmeno mai assaggiato. L’industria africana del cacao fa molto affidamento sui bambini lavoratori, impiegati in attività che vanno dalla preparazione del terreno per la semina alla cura del raccolto: pratiche che spesso implicano l’utilizzo di pesticidi e attrezzi pericolosi come il machete. I bambini, nella maggior parte dei casi, sono costretti ad abbandonare gli studi perché troppo costosi – circa il 50% della popolazione non sa né leggere né scrivere. Libri, uniformi e trasporti sono un lusso che molte famiglie non possono permettersi: in mancanza di alternative e nella speranza di portare in tavola un pezzo di pane in più, i figli diventano così una risorsa per le piantagioni. Ma la paga da fame riservata a chi lavora la terra – soprattutto ai minorenni – non permette comunque alla metà delle famiglie di superare la soglia di povertà. Un dinamica che la Costa d’Avorio sta finalmente spezzando, incamminandosi sulla strada della fine del lavoro minorile.
Passi in avanti, nella direzione giusta
Negli ultimi anni la Costa d’Avorio ha attivato una imponente campagna per aumentare la consapevolezza di ciò che avviene nei campi e ridurre così il traffico di bambini, lo sfruttamento e il lavoro pericoloso. Funzionari del Governo, forze di polizia, magistrati, giornalisti e assistenti sociali, prima adeguatamente formati, si sono poi dati da fare per mettere in piedi un vero e proprio sistema d’allarme e di recupero, attraverso cui tutti possono segnalare il lavoro minorile e permettere alle autorità di salvare i bimbi dagli sfruttatori. Amani Konan, un consulente nazionale responsabile della lotta al lavoro minorile, intervistato dall’Agence Ivoirienne de Presse de Côte d’Ivoire, ha detto che «il primo step deve essere la prevenzione, il secondo la protezione, e il terzo il perseguimento e l’arresto dei trafficanti».
La fase preliminare è importantissima: sensibilizzare l’opinione pubblica e istruirla sui pericoli del lavoro minorile – che non è impiegato solo nelle piantagioni di cacao, ma in tutti i settori dell’attività economica come l’estrazione dell’oro – comporta già a monte una riduzione del rischio che il fenomeno si perpetui. Un obiettivo che nel 2012 il Governo ha cercato di concretizzare finanziando una grossa campagna informativa su tutto il territorio nazionale, realizzata attraverso cartelloni pubblicitari, manifesti sparsi in punti strategici delle città e stampa. Come ha spiegato Konan, «abbiamo anche fatto un tour di sensibilizzazione sul campo, soprattutto per incontrare le persone, perché non tutti hanno accesso ai media. Andiamo quindi in questi campi per toccare con mano la realtà di queste popolazioni e trasmettere loro il messaggio del divieto del lavoro minorile e dell’obbligo scolastico dei bambini». Il risultato è che, alla fine, tutti questi anni di pressione informativa sono serviti. La Costa d’Avorio, infatti, a partire dal 2010 ha approvato una serie di importanti leggi – tra cui un divieto per iscritto di trafficare bambini – e nel 2017 ha stilato un elenco di lavori pericolosi, vietati ai minori di 18 anni, e un elenco di lavori autorizzati per i ragazzi tra 13 e 16 anni che possono svolgere quando non sono in classe. Non è più contemplato, infatti, che il lavoro si sostituisca all’istruzione. La scuola è stata resa obbligatoria e gratuita per tutti i bambini dai 6 ai 16 anni e l’età minima per il lavoro a tempo pieno è stata aumentata da 14 a 16 anni.
Centri di recupero per bambini sfruttati
Soubré, appartenente al dipartimento di Guéyo, è una delle città in cui la perlustrazione di Amani Konan ha fatto tappa. Qui, nel giugno 2018, è nato un centro per accogliere bambini strappati alla terra – ne esistono altri due simili, uno a Bouaké, inaugurato nel 2019 e il terzo a Ferkessédougou, nel 2021. I ragazzi vengono inviati alla struttura da enti di beneficenza, organizzazioni locali o dalla polizia, con lo scopo di fornire ai minori e alle loro famiglie un’alternativa allo sfruttamento nei campi. Il centro, stando ai dati registrati fino al dicembre del 2022, ha accolto 486 bambini dai 5 ai 18 anni: alcuni di loro sono tornati a scuola, altri hanno ricevuto una formazione lavorativa specifica, con la promessa di tirocinio una volta usciti. Di tempo per studiare ce n’è visto che in molti casi la permanenza in struttura, per una serie di motivi, è tutt’altro che breve. Flora Djebre Leocadie, la direttrice del centro, ha spiegato che «in casi gravi, abusi o lavori forzati, i bambini, generalmente analfabeti, restano al centro per alcuni mesi. I piccoli sono generalmente in una situazione di estrema vulnerabilità e traumatizzati. Di solito non parlano nemmeno francese». Con il centro, infatti, collaborano anche medici, psicologi, insegnanti e assistenti sociali, che monitorano lo stato fisico e mentale dell’ospite quando arriva in struttura.
Negli anni la Costa d’Avorio ha lavorato per rendere sempre più numerose e meglio organizzate le strutture, in modo che siano adeguate alla cura dei bambini e che forniscano loro aiuto per tornare nel Paese di origine o presso le proprie famiglie. «Abbiamo predisposto anche due linee telefoniche, affinché le popolazioni possano segnalare e denunciare i casi di abusi sui minori, sia in aree urbane che rurali». È vero che si tratta di centri di accoglienza, ma di transito. Il bambino può rimanerci qualche giorno oppure dei mesi interi, ma a prescindere dalla durata della permanenza ciò che fa davvero la differenza è il tipo di educazione che si semina fuori dalle strutture. Un punto sottolineato anche da Konan, per cui «il tutto non è trovare i genitori. I genitori devono essere sensibilizzati affinché il bambino non si trovi più nella sua situazione iniziale». Tant’è che anche quando il bambino raggiunge la sua famiglia, il centro di accoglienza continua a monitorarlo attraverso visite domiciliari periodiche, utili soprattutto ad assicurarsi che il minore stia frequentando la scuola. I risultati non sono mancati: secondo uno studio condotto dall’Università di Chicago, il tasso di iscrizione scolastica dei bambini che vivono nelle famiglie di coltivatori di cacao è migliorato in modo significativo, passando dal 59% del 2008/09 all’85% del 2018/19.
Un tassello che non può mancare: la lotta ai trafficanti
Nel giugno 2020 la Costa d’Avorio ha istituito sei specifiche unità di polizia regionali, interamente dedicate alla lotta al traffico di bambini e al lavoro minorile. Aiutate da una rete di informatori, le forze dell’ordine si muovono effettuando pattugliamenti nelle piantagioni di cacao e perquisizioni casuali di veicoli nei pressi dei posti di blocco posizionati nelle regioni di coltivazione. Dal 2012 ad oggi sono finiti in carcere più di 1.000 trafficanti, numeri in rialzo da quando il Governo ha istituito specifiche direttive. Tant’è che nel solo 2022 ne sono stati arrestati 392, salvando così 2.116 bambini da situazioni di abuso. Nel 2021, invece, la polizia ha salvato 1.353 bambini e arrestato 25 persone.
In generale, la legislazione che punisce lo sfruttamento minorile si è decisamente inasprita: a seconda della gravità del reato, sono previste multe o pene detentive che vanno da pochi mesi fino all’ergastolo. Certo, il problema non è scomparso e le sfide per il futuro non sono poche: la mancanza di fondi e la gestione del numero crescente di bambini trafficati e recuperati potrebbe compromettere i progressi. Ma la strada imboccata rappresenta una reale inversione di tendenza. Gli attivisti in loco credono che, a prescindere dal loro intervento, un grosso aiuto potrebbe provenire dalle aziende internazionali di cioccolato. Queste, nell’acquistare il prodotto, dovrebbero infatti essere più proattive e porre maggiore attenzione a chi finanziano con il loro denaro.
[di Gloria Ferrari]