Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri la partecipazione di personale militare italiano alle nuove missioni internazionali per l’anno 2023 in Libia, Niger, Burkina Faso e Ucraina. Per quanto riguarda quest’ultima, si tratta della missione di assistenza militare EUMAM Ucraina, il cui obiettivo principale è fornire addestramento alle forze armate di Kiev nel territorio degli Stati membri dell’Unione europea. Anche le missioni in Libia e Niger sono coordinate a livello comunitario (EUBAM Libya e EUMPM Niger), mentre in Burkina Faso si tratterà di “un intervento bilaterale di supporto”. Lo scorso febbraio le truppe francesi, presenti sul territorio burkinabé dal 2018 per “debellare il fenomeno terroristico”, hanno definitivamente abbandonato il Paese dopo la mobilitazione popolare che si era sollevata contro l’ex colonizzatore. A quanto pare, il governo italiano ha raggiunto un accordo con la giunta militare burkinabé per supportare l’esercito regolare nella lotta ai gruppi armati.
Il governo Meloni intende rafforzare la presenza italiana nel “Mediterraneo allargato”, ovvero quella regione immaginaria che si estende lungo due direttrici: da est a ovest, dunque dalle Canarie e dalla costa occidentale dei Paesi nordafricani fino al Mar Nero, e da nord a sud, partendo dall’Europa fino ad arrivare alla regione del Sahel. Proprio qui l’Italia avvierà due missioni: una in Niger, coordinata a livello europeo, e l’altra in Burkina Faso, diretta in solitaria. Individuare i motivi di tale scelta è semplice: il Sahel ha un’importanza strategica per il mondo occidentale, e dunque per l’Italia, paragonabile quasi a quella assunta dalla Corea o dal Vietnam durante la guerra fredda. In quel caso la caduta verso la “minaccia rossa” dei piccoli Paesi asiatici avrebbe comportato, almeno secondo la visione statunitense, un effetto domino a favore di Mosca; oggi, il Sahel potrebbe rappresentare l’epicentro dei fenomeni migratorio e terroristico, che potrebbero allargarsi alle regioni circostanti fino a colpire direttamente il Mare Nostrum. A questo si aggiunge poi l’ascesa, in termini di consenso popolare, di Cina e Russia nel Continente africano: una virata che preoccupa non poco il mondo occidentale. Proprio in Burkina Faso, a inizio anno i cittadini si sono ribellati alla presenza militare degli ex colonizzatori francesi, arrivati nel Paese nel 2018 per contrastare la minaccia jihadista. La cacciata delle truppe parigine si è verificata anche nel vicino Mali, che ospitava circa 5000 soldati francesi giunti nel 2014 per fermare l’offensiva del movimento separatista Tuareg, affiliato di al-Qaeda. Il fallimento degli obiettivi e le denunce relative agli abusi commessi dai militari stranieri ha acceso la mobilitazione popolare e spinto i governi nazionali a cercare soluzioni alternative al problema del terrorismo, richiedendo ad esempio supporto alla Russia e al gruppo paramilitare Wagner.
Chiari anche i motivi della partecipazione dell’Italia all’EUBAM Libya, la missione europea “di supporto alla transizione verso la democrazia e la stabilità” del Paese. La Libia rappresenta infatti un punto di transito per milioni di persone di diversa nazionalità che cercano di arrivare in Europa. Qui, nei vari hotspot per i migranti (dei veri e propri centri di detenzione), vengono commessi quotidianamente crimini contro l’umanità. Il tutto, come certificato dal Consiglio ONU per i diritti umani, con il contributo dell’Unione europea, che supporta economicamente le forze armate e finanzia l’intercettazione e la detenzione di migranti. Michelangelo Servergnini, in un’intervista a L’Indipendente, ha rilanciato un’accusa precisa nei confronti dell’Europa: «Il governo di Tripoli, che anche l’Italia sostiene, controlla appena il 20% del territorio e nemmeno un pozzo di petrolio. Usa i fondi europei per alimentare le milizie che derubano il petrolio nel territorio governato dal governo rivale che ha sede a Bengasi. Sappiamo [da documenti ufficiali NdR] che ogni anno il 40% del petrolio libico viene trafugato dalle milizie di Tripoli e che almeno parte di esso è inviato verso l’Italia; il resto verso Malta, Grecia e Turchia».
Nel 2017, il nostro Paese – guidato allora dal dem Paolo Gentiloni – ha sottoscritto con la Libia un Memorandum in materia migratoria. Mediante tale accordo, rinnovato di recente dal governo Meloni, l’Italia si impegna a fornire alla Libia supporto finanziario e tecnico per contrastare la migrazione verso la nostra penisola, ignorando le condizioni degradanti a cui vanno incontro le persone respinte. A indirizzare il nostro Paese verso Tripoli sono anche gli interessi del settore energetico: a gennaio, ENI e la compagnia libica NOC hanno raggiunto un accordo che rafforza la cooperazione tra i due Paesi. Nello specifico, la multinazionale guidata da Claudio Descalzi investirà circa 8 miliardi di euro per aumentare la produzione di gas del Paese, che rifornirà così sia il mercato interno sia quello europeo.
[di Salvatore Toscano]
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