Secondo i dati Istat, dal 2010 in poi – anno di inizio delle serie Istat – non era mai stato realizzato un margine di profitto più elevato del 44,8% registrato a fine 2022 da parte delle imprese italiane, anche grazie allo scarso aumento dei salari che sono cresciuti molto meno del tasso d’inflazione. Secondo i dati, la quota di profitto è cresciuta dell’1,9% tra il terzo e il quarto trimestre del 2022 e del 3% in più rispetto al quarto trimestre del 2021. Il precedente record risale al terzo trimestre del 2016 quando questo indicatore aveva raggiunto il 44%. Il risultato lordo di gestione a livello aggregato ha superato per la prima volta i 100 miliardi di euro, arrivando a 105 miliardi e 224 milioni, cioè il 16% in più rispetto a 12 mesi prima. La crescita del valore aggiunto, pari a 235 miliardi e 23 milioni alla fine del 2022, è stata invece inferiore, ossia dell’8,4%. Il che significa che il valore di ciò che le aziende italiane hanno prodotto è aumentato più dei prezzi delle materie prime e degli altri costi che gli imprenditori hanno dovuto sostenere, che pure hanno subito incrementi, e, soprattutto più del costo del lavoro.
Per quanto riguarda le retribuzioni, i dati sono molto espliciti: tra dicembre 2021 e dicembre 2022 sono salite mediamente solo dell’1,5%. La percentuale è peraltro determinata dall’incremento degli stipendi della Pubblica Amministrazione, cresciuti del 2,8%, mentre quelli privati sono aumentati decisamente meno: dell’1,5% nell’industria e solo dello 0,6% nei servizi privati, dove sono impiegati gran parte dei lavoratori. I dati di marzo 2023 confermano la stessa tendenza: la rivalutazione annuale dei salari è stata del 2,2%, ma anche in questo caso ad aumentare sono stati gli stipendi degli statali, che hanno goduto di uno scatto del 4,9%, mentre nei servizi privati è stato solo dello 0,9%.
A fronte di questi dati e dell’aumento dell’inflazione, non stupisce che il potere d’acquisto degli italiani sia diminuito, durante il quarto trimestre dello scorso anno, del 3,7%. Un dato peggiore si è registrato solo nella primavera del 2020 a causa delle chiusure pandemiche. Il calo del potere d’acquisto ha fatto sì che l’incremento della domanda fosse solo del 3%, ossia di molto inferiore al tasso d’inflazione. Di conseguenza, gli italiani, da un lato, hanno rinunciato ad acquistare come prima e, dall’altro, hanno dovuto attingere ai risparmi che non sono mai stati così bassi: a non essere speso risulta ormai solo il 5,3% del reddito disponibile. A causa dell’aumento dei costi, la possibilità di risparmio è scesa sotto il 6,1%.
Sul fronte delle imprese, invece, risultano aumentati gli investimenti che, nell’ultimo trimestre del 2022, sono cresciuti del 14,1% rispetto allo stesso periodo del 2021: in valore assoluto sono arrivati a 57 miliardi e 344 milioni di euro. Per quanto riguarda il valore aggiunto, invece, gli ultimi tre mesi del 2022 sono stati positivi per i servizi più che per l’industria: l’Istat, infatti, registra un aumento significativo, pari al 4,2%, del valore aggiunto per i servizi di informazione e comunicazione, nei quali è incluso anche l’ICT. Si tratta dell’unico settore in cui la crescita ha superato quella degli altri trimestri dell’anno. Di poco superiore è stata quella delle costruzioni, il cui valore aggiunto ha visto un aumento del 4,9%, inferiore, però, a quello che si era visto tra 2021 e metà 2022. Hanno ottenuto risultati positivi anche le attività immobiliari e del commercio con un incremento del 3%, quelle di trasporti e alloggio, con un aumento del 3,6%, mentre ha sofferto l’industria in senso stretto, quella manifatturiera, che ha registrato un calo dell’1,7%.
La riduzione del potere d’acquisto delle famiglie implica però anche il rischio di riduzione della domanda, in particolare per quei settori – come quello dei servizi – che più dipendono dalla domanda interna. Ciò avrebbe conseguenze anche sul margine di profitto delle imprese, che ora si è tenuto straordinariamente alto a causa della scarsa crescita dei salari. All’aumento dei profitti delle imprese dovrebbe, dunque, quantomeno corrispondere un aumento degli stipendi e un rientro dell’inflazione. La politica, tuttavia, non solo non si è occupata di indicizzare i salari, ma lo ha sconsigliato per non generare un ulteriore aumento dell’inflazione, agevolando così le imprese e contribuendo ad erodere il risparmio privato degli italiani. Solo il calo dell’inflazione, insieme alla presunta crescita del Pil nel 2023, stimata dall’FMI intorno allo 0,7% – potrebbero avere un impatto positivo anche sullo stipendio dei lavoratori, che finora sono stati i più colpiti dall’aumento delle materie prime e dei beni di consumo, derivante delle congiunture internazionali.