sabato 23 Novembre 2024

Clima, al via la prima causa civile italiana contro l’azienda fossile ENI

Le organizzazioni ambientaliste Greenpeace Italia e ReCommon, insieme a dodici cittadini, hanno ufficialmente citato in giudizio la compagnia fossile italiana ENI Spa, così come il ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti che insieme controllano circa il 30% del capitale sociale dell’azienda. Al via quindi la prima causa civile italiana che accusa la principale multinazionale fossile dello Stivale di danni ambientali e climatici passati, presenti e futuri. «ENI – spiegano i ricorrenti – ha significativamente contribuito negli ultimi decenni a rendere l’Italia dipendente dal gas russo prima e da quello proveniente da altre aree del mondo poi», pertanto, «contestiamo a ENI la violazione dell’Accordo di Parigi e vogliamo ricordare che, come già sancito da diversi tribunali internazionali, continuare a contribuire al riscaldamento globale genera degli impatti associati a gravi violazioni dei diritti umani». Le associazioni confidano che le prove scientifiche, ormai schiaccianti sulla responsabilità delle compagnie fossili in fatto di crisi climatica, aiutino a vincere la causa.

Le organizzazioni hanno scelto di basarsi su un’analoga causa intentata nei Paesi Bassi contro la multinazionale petrolifera anglo-olandese Royal Dutch Shell e costringere quindi l’ENI a ridurre le proprie emissioni di carbonio del 45% entro il 2030. Inoltre, gli ambientalisti chiedono che il ministero dell’Economia e delle Finanze “sia obbligato ad adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi”. Di contro, con un comunicato – “ENI prende atto dell’iniziativa annunciata oggi da ReCommon e Greenpeace e dimostrerà in Tribunale l’infondatezza dell’azione messa in campo e, per quanto necessario, la correttezza del proprio operato e della propria strategia di trasformazione e decarbonizzazione, che mette insieme e bilancia gli obiettivi imprescindibili della sostenibilità, della sicurezza energetica e della competitività del Paese”. Eppure i presupposti affinché il Cane a sei zampe venga obbligato a tagliare le proprie emissioni non mancano. Molti legali esperti di controversie sul clima affermano infatti che i documenti associati al caso ENI si aggiungono a un crescente numero di prove che dimostrano che le compagnie petrolifere avevano una chiara comprensione dei rischi posti dalla combustione dei loro prodotti più di mezzo secolo fa. Ciononostante hanno comunque scelto di minimizzare i pericoli e di aumentare la produzione di petrolio e gas.

Non a caso, il più delle accuse si basa su uno studio commissionato dalla stessa ENI, tra il 1969 e il 1970, al proprio centro di ricerca ISVET. Dal rapporto, reso pubblico solo di recente, era emerso chiaramente che, se non controllato, l’aumento dell’uso di combustibili fossili avrebbe potuto portare a una crisi climatica nel giro di pochi decenni. «Come altre compagnie di combustibili climalteranti – ha dichiarato Ben Franta, ricercatore senior presso l’Oxford Sustainable Law Programme – l’ENI potrebbe alla fine essere chiamata a rispondere in tribunale di questo modello di inganno e danno. Come tutti gli altri colossi fossili, era consapevole degli effetti catastrofici che i suoi prodotti avrebbero avuto sul Pianeta, ma non hanno avvertito il pubblico, hanno nascosto le loro conoscenze, hanno negato il problema e hanno ostacolato gli sforzi per risolverlo». È ormai infatti altrettanto appurato che le principali aziende del petrolio e del gas hanno pagato fior di quattrini per alimentare lo scetticismo sui cambiamenti climatici. Hanno finanziato, oltreché direttamente degli istituti di ricerca, delle vere e proprie campagne di disinformazione affinché la responsabilità delle loro attività nel cambio del clima venisse sminuita. Una delle indagini più recenti ha ad esempio rilevato che un campione di realtà legate al settore dei combustibili fossili ha speso circa 4 milioni di dollari per pubblicità in Meta allo scopo di diffondere, prima e durante la COP27, affermazioni false e fuorvianti sulla crisi climatica.

Il tutto poi, e anche nel caso specifico di ENI, si inserisce in un attuale contesto di extra-profitti: il Cane a sei zampe, nel solo 2022, ha raggiunto il guadagno record di ben 20,4 miliardi di euro. Profitti che tuttavia continueranno, con molta probabilità, ad alimentare perlopiù l’espansione del gas fossile. «L’azienda si vende come green (più del 55% delle sponsorizzazioni di ENI parlano di sostenibilità e ambiente) – denuncia un esponente di Greenpeace – ma, secondo i dati in nostro possesso, continua ad aumentare i propri investimenti in oil&gas». Puntato infine il dito su Plenitude, la stella nascente controllata al 100% da ENI definita dagli ambientalisti come “l’illusione perfetta”. Secondo Greenpeace, infatti, più della metà delle attività del braccio ‘sostenibile’ di ENI riguarda il gas e, nel 2022, per ogni euro investito da Plenitude, ENI ha speso 15 euro nel settore fossile. In definitiva, per tutti questi motivi, le organizzazioni hanno scelto di ricorrere alla giustizia. L’iniziativa è stata promossa dalla campagna #LaGiustaCausa e rientra nella categoria dei sempre più frequenti contenziosi climatici. Azioni legali che, a livello mondiale, sono più che raddoppiate in numero dal 2015: oltre duemila le cause del genere avviate fino ad oggi.

[di Simone Valeri]

 

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