A guardarlo da fuori, il mondo della moda sembra spaccato a metà: da una parte i famigerati marchi di “lusso”, quelli che fanno gola a tanti ma rimangono accessibili a pochi; dall’altra i colossi del fast fashion, promotori di una moda rapida, accattivante (perché scopiazza a regola d’arte e intercetta le tendenze alla perfezione) e alla portata di tutti i portafogli. Una divisione formale che riflette una divisione sociale abbastanza pronunciata dove, tra aumento del costo della vita e stipendi stagnanti, il potere di acquisto è notevolmente diminuito. Ma è anche una questione culturale: anni e anni di prodotti low cost, hanno disabituato il cliente finale a interrogarsi sul valore reale di quel che acquista, portandolo a scegliere più cose a basso prezzo (ovviamente stimolato anche dalla comunicazione che invita ad avere e sfoggiare cose nuove costantemente).
Eppure la terra di mezzo esiste, ed è popolata di possibilità valide, con proposte per tutti i gusti e per tutte le tasche. Si tratta di marchi indipendenti, di piccole e medie dimensioni, orientati alla sostenibilità per vocazione più che per imposizione; attenti all’ambiente, iper-critici nei loro stessi confronti, orientati alla qualità, devoti al design, alla sperimentazione e alla ricerca. L’alternativa tanto giusta quanto invisibile, presa in considerazione solo da una nicchia di persone e che, proprio per questo, rischia di sparire.
Perché tanti piccoli marchi sono in difficoltà?
Sono diversi i fattori che minano la sopravvivenza di questo segmento della moda, nel quale troviamo artigiani (veri), designer indipendenti, sartorie contemporanee, aziende di piccole e medie dimensioni che hanno deciso di seguire la loro strada, spesso slegata da quelli che sono i calendari e le imposizioni del sistema. Outsider a tutti gli effetti, quelli che sono fuori dalla giostra non perché non ce li hanno fatti salire, ma perché da quel circo hanno preso le distanze. Ed è per questo che sono opportunamente tenuti nell’ombra.
L’invisibilità, in questo caso, è uno dei problemi. Sono aziende di moda a tutti gli effetti, ci sono, ma non si vedono. Nessuna rivista si occupa di loro, nessuna fiera offre spazi a prezzi accessibili (men che mai gratuiti), nessuno ne parla (o comunque pochissimi) e non riescono a uscire nemmeno su quei social media, che dovrebbero essere democratici ma che, di fatto, con l’algoritmo che cambia premiando chi paga, va a oscurare chi può fare investimenti limitati. Dopotutto, il capitale a disposizione di queste imprese non è infinito e spesso bisogna andare a distribuire quel che c’è tra produzione e comunicazione; nessuna piccola impresa può competere con i budget di marketing di una grande azienda. Così, anche la democrazia dei primordi dei social media, è stata sostituita da algoritmi che promuovono sponsor e contenuti che servono agli obiettivi della piattaforma. Le persone s’illudono di seguire determinati marchi per i loro contenuti, ma spesso vedono solo una frazione di quello che hanno scelto di vedere se quel contenuto non è in linea con gli obiettivi più ampi del social media. In pratica, tra algoritmi e annunci, l’esposizione va al miglior offerente. Non è più una questione di autenticità o accuratezza dei contenuti: chiunque abbia il budget necessario per acquistare esposizione e visibilità, dominerà la scena.
Non è, però, l’unico mezzo che oscura la maggioranza dei marchi indipendenti. La narrazione principale che viene fatta sulla sostenibilità spinge il cliente finale alla ricerca di brand in possesso di certificazioni, bollini e controlli assurdi (spesso aleatori e a pagamento); si parla di controlli, di LCA e di complicati calcoli d’impatto che, di fatto, vanno a penalizzare i piccoli marchi, che spesso non hanno (di nuovo) i budget necessari per provvedere a certi tipi di certificazioni. Quello che non è messo in evidenza è il problema reale: sovrapproduzione e sottoutilizzo; si produce tanto, troppo e si usa per troppo poco tempo. Il modo in cui i marchi producono e il modo in cui i consumatori utilizzano ciò che acquistano, insieme a quanto, è ciò che è cambiato negli ultimi tre decenni. Un problema che non appartiene ai piccoli marchi: non fanno produzioni immense e si basano su artigianalità e qualità, caratteristiche fondamentali per la durata emotiva e fisica di un capo. Più un abito è curato, studiato nel dettaglio e pensato per la persona, più connessione si viene a creare con quell’oggetto, meno voglia si ha di cambiarlo dopo solo un paio di volte che s’indossa. Un cambio di visione difficile da accettare e da fare proprio, soprattutto in questi tempi dominati da sovraesposizione e apparenza (uscire nelle foto con lo stesso vestito pare brutto). A prezzi bassissimi.
Il fattore prezzo è un altro aspetto che sta andando a compromettere la vita di questi brand. Il fast fashion è un sistema che ha completamente distorto la percezione del costo reale dei capi di abbigliamento. Spesso s’ignora quel c’è dietro alla confezione di un capo, dalla ricerca dei materiali fino ai processi produttivi, il costo della manodopera (che è diverso secondo il luogo in cui è fatta) e tutti i passaggi intermedi. Abituati a pagare “poco”, tutto il resto sembra “caro”. Così, i marchi invisibili, devono costantemente stare a giustificare i loro prezzi perché “più alti” di quelli del fast fashion: una fatica e una guerra. Per ovviare a tutto ciò, per mantenere prezzi “nella media”, vanno a tagliare del margine sui propri guadagni (e con questo non solo la capacità di crescere, ma anche di sopravvivere).
Come ciliegina sulla torta, le politiche in atto nel nostro Paese non agevolano la micro impresa e non sembrano interessate a farlo. Impegnate a proteggere le grandi industrie nazionali, rendendole più green di facciata, non mostrano alcun interesse per il sottosuolo ricco di fertili alternative. Una terra che avrebbe bisogno di supporti, incentivi e agevolazioni, per far emergere e portare all’attenzione di più persone coloro che già s’impegnano per una moda diversa, onesta, originale e lenta. Basterebbe sanzionare le grosse aziende che si comportano in modo scorretto per far uscire i soldi per finanziare le piccole imprese.
Nel frattempo che ciò accade, l’invito è sempre quello di mettersi a cercare alternative valide nella terra di mezzo…
[di Marina Savarese]
Buongiorno, abbiamo delle validissime realtà artigiane , dovrebbe essere la persona a fare scelte “consapevoli” eliminando il fast fashion , lo stato invece dovrebbe tassare le macchine e non le persone ……….stiamo dustruggendo il pianeta in cui viviamo .
Accademia dei Sartori la più antica in Europa a Roma direi , Saville Row a Londra , e poi altissimi artigiani validi e capaci …..