Il popolo turco conoscerà il suo prossimo presidente tra due settimane. Il Consiglio elettorale supremo ha confermato che nessuno dei tre candidati ha raggiunto il 50% dei consensi, rendendo dunque necessario il ballottaggio. L’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan si è fermato al 49,4% mentre il suo principale avversario, Kemal Kılıçdaroğlu, ha ottenuto il 45% delle preferenze. Il leader di estrema destra Sinan Ogan non ha superato il 4,5%. Comunque andrà il prossimo 28 maggio, la Turchia non si allontanerà dall’obiettivo di recuperare lo status di Potenza perso sul finire del XIX secolo. Un sogno che va al di là delle differenze politiche dei presidenti che si sono succeduti alla guida del Paese: da Gazi Mustafa Kemal Atatürk a Recep Tayyip Erdoğan. Con quest’ultimo al governo, la Turchia ha fatto la voce grossa nel cosiddetto Mediterraneo allargato, giocando un ruolo chiave nel dialogo diplomatico tra Russia e Ucraina o nei processi di adesione di Finlandia e Svezia alla NATO.
File interminabili in prossimità dei seggi hanno caratterizzato le elezioni turche, durante le quali circa il 90% degli aventi diritto ha votato per il rinnovo del presidente e del Parlamento. A Cizre, una cittadina a maggioranza curda, la polizia ha fatto uso di lacrimogeni per fermare i caroselli del Partito della Sinistra Verde (YSP), in corsa alle elezioni parlamentari (ma non presidenziali). Nell’alleanza guidata dai Verdi sono confluiti anche i militanti del Partito Democratico dei Popoli (HDP), uno dei riferimenti principali per la popolazione curda, soprattutto in seguito alla messa a bando del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Per quanto riguarda il voto parlamentare, le ultime proiezioni vedono la coalizione guidata da Erdogan vittoriosa di 320 seggi su 600, un fattore che avrà un certo un peso sul ballottaggio tra Kılıçdaroğlu e l’attuale presidente. Il candidato Sinan Ogan ha denunciato brogli nei voti, affermando che il conteggio non è avvenuto «in un ambiente sano».
La Turchia si ritrova a fare i conti con la pesante, e relativamente recente, eredità dell’Impero Ottomano, discioltosi nel 1922 dopo oltre 600 anni di storia. Opponendosi al destino che le potenze occidentali avevano deciso per l’Impero al termine della Prima Guerra Mondiale, Gazi Mustafa Kemal Atatürk guidò il Movimento Nazionale Turco e sconfisse le armate armene, francesi, italiane e greche. Così facendo, ottenne la rinegoziazione dei trattati di pace. In particolare, il Trattato di Sèvres fu sostituito dal Trattato di Losanna, il quale concesse alla neonata Repubblica turca un territorio più generoso: l’intera penisola anatolica. Il movimento guidato da Atatürk era impregnato di nazionalismo, la cui eredità è ancora oggi visibile nel Paese. L’esaltazione e la difesa della patria riescono infatti a coprire le differenze politiche dei partiti e dei leader. Si pensi al sostegno che caratterizzò l’intervento turco a Cipro nel 1974, un’invasione approvata dal socialdemocratico Bülent Ecevit, dall’islamista Necmettin Erbakan e dal lupo grigio Alparslan Türkeş.
Dal sentimento nazionalista discende la volontà di riacquisire il vecchio status di Potenza e di essere un attore determinante sullo scacchiere geopolitico. Una volontà esternata anche durante il mandato di Erdogan, che ha fatto dell’equidistanza (almeno formale) tra Stati Uniti e Russia un punto fermo della propria politica estera. Non a caso Ankara, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, ha organizzato i tavoli diplomatici tra le delegazioni. Conscio della propria centralità all’interno della NATO, Erdogan ha chiesto a Finlandia e Svezia il rispetto di diverse condizioni in cambio della caduta del veto sul loro ingresso nell’Alleanza: dalla revoca dell’embargo sulle armi al mancato supporto alle organizzazioni che chiedono la nascita e l’indipendenza di uno stato curdo (Kurdistan).
Tale posizione di forza si traduce nell’accondiscendenza della NATO verso la repressione delle forze curde interne e l’aggressione di quelle attive al di là dei confini. Dal 2016, Ankara ha lanciato tre grandi offensive verso il nord della Siria, che le hanno permesso di conquistare – nel silenzio della comunità internazionale – centinaia di chilometri di terra, spingendosi per circa 30 chilometri nel paese, in operazioni contro la milizia curdo-siriana Unità di Protezione Popolare (YPG) sostenuta ancora oggi dagli Stati Uniti dopo gli anni della lotta all’ISIS. Proprio la perdita di consensi nei confronti di Washington nel Golfo Persico ha spalancato una nuova opportunità per la Turchia: la proiezione a sud della propria influenza. La postura strategica della Turchia in ambito estero non dovrebbe essere stravolta dall’esito delle elezioni, al netto di alcune garanzie promesse da Kılıçdaroğlu ai curdi. In un comizio dello scorso aprile, il principale avversario di Erdogan ha specificato che «non metteremo fine all’industria dei droni. La produzione indigena di armamenti non è iniziata con questo governo. L’industria della difesa è una questione nazionale, non di partito. Più forte è la Turchia nel comparto bellico, più diventa un Paese in grado di esibire la sua potenza».
Come due rette incidenti, Erdogan e Kılıçdaroğlu s’incontrano in un punto comune, quello della politica estera, salvo poi allontanarsi. «Libererò il Paese da una leadership autoritaria», ha spiegato Kılıçdaroğlu in un’intervista in cui ha confermato di voler rispettare pienamente «tutti gli standard democratici dell’Unione europea». Il processo di adesione comunitaria si è arenato durante il ventennio di Erdogan a causa delle violazioni del diritto perpetuate dal suo governo. Il leader dell’opposizione turca punta a tutelare l’indipendenza della magistratura, minacciata invece dalle mire dell’attuale presidente. Nonostante tutto, nel 2016 l’Unione europea ha siglato con la Turchia un accordo per limitare i flussi migratori da est. Un’intesa che, in cambio della “stabilità” dei confini europei, liberalizza le violazioni dei diritti umani nei confronti dei rifugiati, mostrando il volto nascosto dell’Occidente che si svela tra un’elezione e l’altra.
[di Salvatore Toscano]
Ormai la violazione dei diritti umani è stata liberalizzata anche in Europa