Chiuso il 2 marzo grazie alle rivolte delle persone detenute, ora oltre ad associazioni, cittadini e collettivi anche il Comune di Torino chiede che il Centro di Permanenza per il Rimpatrio della città non venga più riaperto, ma non per le condizioni disumane e l’utilizzo punitivo del luogo. «Non è una battaglia politica di diritti umani: Il CPR è un fallimento dal punto di vista gestionale ed economico, questo è un dato di fatto ed è l’unica argomentazione che al momento può permettere di pensare a percorsi alternativi e a smentire la grande falsità che quello sia un luogo che genera sicurezza, perché sappiamo che chi è all’interno non è lì perché ha commesso un reato» ha dichiarato a L’Indipendente Luca Pidello, presidente della Commissione per la legalità e i diritti delle persone private della libertà personale di Torino. In una dichiarazione che lascia intendere come la preoccupazione della Commissione sia burocratico-amministrativa più che relativa al rispetto dei diritti delle persone rinchiuse nel CPR, di cui anche Pidello non pare curarsi granché. La Prefettura ha comunque annunciato i lavori di ristrutturazione e perfino l’allargamento della struttura dopo l’estate. I reclusi lo chiamano campo di concentramento, con trattamenti peggiori di quelli riservati agli animali. Di seguito racconteremo, attraverso le testimonianze di persone che sono state recluse nel CPR di Torino, quale sia la realtà all’interno di questi centri.
Il paradosso della detenzione amministrativa
Cibo immangiabile e scaduto, psicofarmaci nascosti nei piatti; un freddo insostenibile, nessun rispetto per la vita delle persone e per la loro dignità. Stanza piene di gente fino a esplodere. Scabbia. Botte. Isolamento forzato. Mancanza delle cure mediche necessarie. Deportazioni coatte, con mani legate e punture piene di calmanti. Questa è la vita nei dieci (ora nove) CPR, i centri di detenzione per il rimpatrio disseminati su tutto il territorio nazionale. Luoghi dove il diritto non esiste, per alcuni. Lager, semplicemente, per altri. Otto morti negli ultimi tre anni.
A Torino, le reti che circondano le aree sono alte più di cinque metri. Il muro che circonda la struttura, quattro. Torrette di guardia agli angoli, e in una delle aree (Ospedaletto, l’isolamento), chiuso in seguito alla morte di Moussa Balde nel maggio del 2021, le maglie di metallo si chiudono anche sopra. «Sembrava di essere in un pollaio», dice chi c’è passato. Era una sezione dove venivano rinchiusi coloro che si trovavano in punizione. Nella pura teoria era un luogo di isolamento sanitario. Nella pratica era una camera di tortura psicologica. E anche fisica, dato che avvenivano spesso lì i pestaggi.
Polizia ovunque. Spesso camionette schierate all’ingresso, sempre manganelli e botte troppo facili. Tanto i telefoni non li lasciano entrare. Vietatissime le telecamere. Eppure, in teoria, non siamo nemmeno in un carcere.
La chiamano “detenzione amministrativa”: ci finisce chi non ha un documento valido, e viene messo lì per un massimo di 90 giorni (prorogabile di altri 30), in attesa di un rimpatrio che non sempre avviene. Ora il governo vorrebbe costruire un CPR per regione e aumentare la durata della detenzione a sei mesi. A volte le persone vengono prese dalla strada, in retate comuni nelle città italiane, o direttamente dalle questure dopo un mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Altre volte arrivano dalla prigione, in una sorta di seconda punizione per chi non è italiano. Altri ancora arrivano direttamente dagli hotspot, passando dall’inferno delle prigioni libiche, dall’incubo del viaggio in mare, all’orrore di un’altra prigione, tutta democratica – il CPR.
Avere i CPR pieni fa comodo a molti. Alle multinazionali dei servizi, per esempio, che gestiscono queste prigioni semi-private, dove diritti e dignità sono stati derogati in nome del profitto e dell’interesse nazionale. Ma anche allo Stato, interessato ad avere una punizione da usare come e quando vuole verso coloro che non ritiene integrabili o gestibili nel sistema nazionale. Ben 44 milioni di euro la spesa sostenuta dagli enti gestori tra il 2018 e il 2021, per 400 reclusi in media. Una spesa giornaliera di più di 40mila euro. Più le decine di migliaia di euro delle strutture detentive e le spese di polizia. Una marea di soldi. Lo chiamano “business della detenzione amministrativa”. A lucrarci, multinazionali dei servizi anche internazionali, come ORS, società privata leader nel campo di “assistenza migranti” con sede in Svizzera, che gestiva fino a poco fa il centro di detenzione amministrativa torinese. L’azienda (già denunciata da ONG per la tutela dei diritti umani, tra le quali Amnesty, per la gestione di alcuni centri di detenzione amministrativa per migranti) per ora è stata sospesa in seguito alle rivolte. Il CPR di Torino è chiuso, in attesa di una ristrutturazione annunciata dalla Prefettura. I lavori, che forse comporteranno anche un allargamento della prigione, in teoria inizieranno dopo l’estate e dovrebbero finire entro la fine dell’anno. Sono state numerose le rivolte importanti nel centro di detenzione di Corso Brunelleschi, ma questa é stata la prima volta che i danni strutturali causati sono così ingenti da obbligarne la chiusura. Per ora solo momentanea.
Tortura di Stato
A. ha una trentina di anni, origini marocchine. L’hanno preso mentre camminava per strada. Ha un figlio di due anni. «Ho vissuto praticamente tutta la mia vita qua», dice. «Nel mio Paese non ho più niente». Non ci vuole tornare in Marocco, la sua vita è in Italia. E non è il solo. Come lui, sono centinaia le persone giunte in Italia da decenni che si ritrovano obbligate a tornare in una terra da dove erano emigrati, chi per fame, povertà, guerra. Chi sperava in una vita meno sfruttata nella democratica Europa. Chi sognava semplicemente altro.
Il reato? Non avere dei documenti in regola. Un permesso di soggiorno ormai sempre più legato all’avere o meno un lavoro regolare, cosa non facile in questo Paese. In pratica, una punizione per coloro che non sono considerati più integrabili, sfruttabili dal mercato capitalistico nazionale. Che guadagna di più nel detenerli o mandarli via. Considerando, però, la bassa capacità di portata del sistema di detenzione/deportazione, con numeri minimi di persone rimpatriate, un’altra funzione risulta chiara: quella intimidatoria e deterrente. Il CPR assume così una seconda modalità di disciplinamento nei confronti delle persone che potrebbero finire rinchiuse lì dentro: la continua e pervasiva minaccia della deportazione, dell’allontanamento forzato dalla propria vita e dai propri affetti fa da monito a tutti coloro che sono sul territorio. L’azione deterrente è dunque parte fondamentale del sistema stesso.
Una delle testimonianze raccolte in forma anonima dal collettivo No CPR Torino nel gennaio 2021 riporta: «Sono nel centro di espulsione di Torino. Io non lo chiamo centro di espulsione ma campo di concentramento perché ci trattano come animali. La gente è disperata. Ci sono persone che sono in una situazione che se la vedete vi viene da piangere. Io per esempio, quando sono arrivato mi hanno lasciato 24 ore al fresco per darmi il benvenuto. Quando entri ti danno una mascherina usa e getta e questa mascherina la devi usare per tutta la tua permanenza nel centro di espulsione. Quando ha nevicato la gente tremava per il freddo perché non avevano le giacche. Quando abbiamo chiesto, ci hanno riso in faccia».
In un’altra, risalente al medesimo periodo, un’ospite riferisce: «L’altro giorno hanno bruciato l’area non per amore, per passione o per divertimento. Hanno bruciato l’area perché c’era una ragazzo che stava male e non lo volevano portare in ospedale. Loro hanno dovuto fare quello che hanno fatto per mandarlo in ospedale. Poi alla fine lo hanno portato in ospedale e dopo sono entrati e hanno massacrato di botte tutti quanti».
Nel febbraio 2023, a seguito delle rivolte di Corso Brunelleschi, un detenuto del CPR commenta: «Si chiamano forze dell’ordine… qualcosa che ti deve proteggere, teoricamente… non qualcuno che quando arrivi in quel posto ti tortura. Non hai diritti, una volta arrivato in quel centro, lì capisci tante cose, vedi che… il mondo ti si chiude perché rimani tu in una gabbia… in mezzo a queste tre gabbie… manco tanto grandi per farti una passeggiata. Sono celle e celle in queste grandi gabbie, come degli animali…». Un’altro, sempre nello stesso periodo, afferma: «E’ una mafia qua, te lo giuro, é una mafia… non puoi parlare, stai zitto, sai cosa vuol dire stai zitto? Ti picchiano, te lo giuro, hanno preso una persona e l’hanno massacrata! Hanno massacrato gente di botte! Hanno pisciato su uno qua! Sono entrati, hanno massacrato di botte e hanno pisciato sopra a uno […] Ci sono tanti ragazzi che stanno male, ci sono anche persone più grandi, di tanti anni… malati… e loro danno solo la terapia, la terapia… guardano solo la terapia! Terapia per fare dormire, per stare calmi, capito? Della gente ammalata, nessuno se ne preoccupa».
Le condizioni di vita nei CPR spingono le persone a protestare. In molti testimoniano che solo in seguito a scioperi della fame, tentativi di suicidio, proteste collettive vengono ascoltati, e solo in minima parte. «Ho visto delle cose qua che non immaginavo neanche. Noi vogliamo che la nostra voce arrivi fuori, per raccontare la realtà dei fatti di quello che sta succedendo nei centri per il rimpatrio» dice un altro ragazzo, detenuto nel gennaio 2021. «Come ha detto il mio compagno, io non lo chiamerei centro, ma campo di concentramento. Perché quello che ho visto fa venire la pelle d’oca. Non riesco a raccontare, mi spiace mi viene da piangere. A prescindere dalla razza, perché la razza umana per me è unica: che tu sia tedesco, italiano o africano la razza umana è unica. Però vedere un essere umano trattato così, neanche un cane o un gatto può essere trattato così».
«A questi non interessa che tu viva o muoia. Questi sono altra gente! Questa è giustizia? Questa è l’Europa? Ti dicono il Terzo Mondo. È qua il Terzo Mondo! Finché questa mentalità c’è ancora… è questo il razzismo! Davvero, io non capivo che significava razzismo quando stavo al mio Paese. L’ho capito qua, l’ho capito qua che significa razzismo!» esclama un detenuto, intervistato nel giugno 2020.
Innumerevoli le proteste, per la maggior parte represse e silenziate dalle forze di polizia presenti nella struttura. I racconti dall’interno parlano di insulti e botte frequenti, di cibo avariato e difficoltà ad avere lo stretto necessario per sopravvivere, come acqua calda, coperte, medicine, finestre e porte ai bagni.
La “Terapia”: utilizzo di psicofarmaci coatto
«Questo non è un centro, è peggio di un carcere, ti danno la terapia forzata! Se non la prendi rimani in isolamento. I militari ti offendono, ti spingono, ti dicono “dai cani, camminate! Migranti del cazzo”, ti dicono così» riferisce un detenuto, a seguito delle rivolte dello scorso febbraio.
Rivotril, Valium, Tavor, Zoloft, metadone. Come evidenziava anche il servizio di Striscia La Notizia, e come stanno denunciando alcune inchieste nelle ultime settimane (come quella condotta da Altraeconomia), nei CPR gli psicofarmaci vengono imposti più che proposti. Le testimonianze parlano di pastiglie nascoste nel cibo, di persone obbligate a prendere i farmaci e perfino di siringhe somministrate con la forza, destinate a calmare chi deve essere deportato al Paese di origine. «Si, se non mangi la terapia ti mettono in isolamento legato e stai li per due-tre ore, e quando ti rompi le scatole dici “ok, la prendo”, e se la prendi torni nella tua cella, se non la prendi rimani lì, al freddo, senza scarpe, e se urli e dici qualcosa di brutto, lascia stare che cosa ti succede».
Sono 12.719 gli euro spesi dal CPR torinese tra il 2017 e il 2022 in farmaci antiepilettici, antidepressivi e antipsicotici. Circa 80 volte la spesa dell’Asl di Vercelli per questo tipo di farmaci, per una popolazione numericamente analoga al CPR. «C’è un ragazzo a cui hanno fatto una puntura, l’hanno fatto diventare come un robot» afferma un “ospite” nell’ottobre del 2022. «Ma come si fa a fare una puntura a un essere umano che non la vuole, contro il suo volere? Lo sai che è un reato questo? Io sto scontando mesi per niente, per quale motivo sono qua? Ci mettono pure la medicina nel mangiare, c’è chi non si alza manco più! La gente sta impazzendo per questa cosa, a forza di dare la terapia contro la loro volontà! Te la mettono nel mangiare». «Per la terapia… ci sono quelli che vengono dal carcere, la prendono in carcere» dichiara un altro, lo scorso febbraio. «E quando vengono qua vogliono smettere, perché stanno per uscire. Ma non ti lasciano, se non la mangi ti lasciano in isolamento! E non ti slegano se non la prendi. Hai visto il video che ha pubblicato Striscia la Notizia? Sono gli stessi comportamenti qui».
B. ha circa 20 anni e proviene dall’Europa dell’est. Era detenuto nel CPR di Torino nel febbraio 2023. «Sono venuti a casa alle 6 del mattino, ero solo con mia madre. Mi hanno detto di vestirmi e di preparare una borsa, che stavamo via qualche giorno. Non mi dicevano niente. Dopo le visite mi hanno portato in questo posto, il CPR. Io non avevo mai sentito questo posto. Mi hanno chiesto se facevo uso di droghe, per la terapia. C’é una cosa lì, la terapia. La prendevi al mattino, a pranzo e a cena. E ti lasciava tutto il giorno moscio, ti sballava. Io ho rifiutato di prenderla, io voglio essere sano. Non voglio che loro mi droghino. Ma c’erano delle gocce che ti mettevano nel bicchiere. Il cibo faceva schifo, non sapeva di cibo, sapeva di scaduto. Puzzava, non so come abbia fatto a mangiarlo. Ho perso 6 kg. Mangiavo perché non c’era nient’altro. Le condizioni lì dentro… a parte la sporcizia: i bagni e le docce erano senza porta, non si potevano aprire le finestre in bagno». B. è stato rimpatriato. Poco importava che avesse vissuto praticamente tutta la sua vita in Italia, dove aveva la sua famiglia, i suoi amici, i suoi affetti.
La gestione sanitaria all’interno dei CPR è allo stesso modo molto violenta. Le testimonianze dirette delle persone recluse denunciano quotidianamente una continua negazione del diritto di accesso alla cura, dalle assenze di visite mediche a una mancata presa in carico di reclusi con problemi di salute. «Solo tachipirina! Se non vuoi la tachipirina ti dicono vai al diavolo! Solo tachipirina per qualsiasi cosa!» riferisce un detenuto nel 2021, in piena crisi pandemica. «C’è un ragazzo insieme a me che sta vomitando sangue. Ha una ferita nello stomaco. Il medico gli ha detto “vomita e portami il vomito che hai fatto”. Lui ha vomitato e ha portato a loro il vomito, e sempre tachipirina. Poi gli hanno dato quella pastiglia… come si chiama? Il Maalox! Ha preso il Maalox. Ha una cartella clinica di cinque o sei pagine. Ieri gli hanno detto che lo portavano in ospedale e non lo hanno ancora portato. È ancora qua!».
Nel 2020, un altro detenuto racconta: «C’era un ragazzo con me nella stanza, un cittadino tunisino, che ha dei pezzi di proiettili nel piede e nessuno lo vuole visitare. Oggi è andato dal medico, che gli ha detto: “Devi andare in Tunisia per farti curare. Noi qui non ti guardiamo neanche in faccia”. Lo hanno trattato come un animale. E piangeva come un bambino. Insultano noi, insultano le nostre famiglie… Ma ti sembra giusto? Una cosa allucinante, non riesco a credere che tutto questo è stato detto da un medico professionista sotto giuramento. Il ragazzo non mangiava da sette giorni poi va dal medico per curarlo e lui gli dice dice se vuoi essere curato tornate nel tuo Paese! Ma ti sembra giusto? Detto da un medico! […] Giorni fa un ragazzo si è tagliato le vene, ma non lo hanno nemmeno portato al pronto soccorso».
Le proteste nel CPR di Torino
Il 4 ed il 5 febbraio 2023 i reclusi del CPR di Torino hanno iniziato una protesta contro le condizioni detentive e per far prendere in cura una persona che era svenuta mentre le guardie presenti si rifiutavano di chiamare il medico. Forse la rabbia fu alimentata anche dal servizio di Striscia dei giorni antecedenti, dove venivano denunciate le condizioni del CPR di Palazzo San Gervasio (Potenza). A distanza di poche ore anche nel CPR di Milano, in via Corelli, i detenuti hanno dato voce a una protesta. Le condizioni dei Centri per il rimpatrio sono infatti simili in tutta Italia. A Torino i reclusi hanno finito per danneggiare buona parte della struttura detentiva, rendendo inagibili 3 aree su 4.
Numerose le testimonianze delle violenze della polizia. «Stanno massacrando la gente qua. Si sente la gente che grida. Hanno fatto male a due. Oggi hanno bruciato 3 aree, rimane solo una. E l’area blu rimane solo una cella. Stanno lanciando lacrimogeni, in tre sono andati all’ospedale! Siamo sotto sequestro qua, ci sono persone che stanno male e nessuno fa niente!». «Hanno picchiato tutti. Sono entrati con i bastoni e hanno picchiato tutti qua. Non stiamo bene, le condizioni in cui siamo non le possiamo spiegare. Siamo abbandonati. Siamo qua da una vita, senti come parlo italiano?». La testimonianza è di R., fermato per un controllo dei documenti mentre usciva dal supermercato e successivamente trasferito nel CPR. «Non abbiamo fatto nessun reato. Io sono cresciuto qua».
A seguito delle rivolte, alcune persone sono state portate in ospedale, molte altre sono state lasciate senza soccorsi nella sala da pranzo e in un magazzino della struttura, costrette a dormire all’addiaccio. Sembra che nei giorni successivi alcuni detenuti siano stati arrestati e portati al carcere Le Vallette di Torino, ma si hanno poche informazioni in merito. Molti altri sono stati trasferiti negli altri CPR sul territorio italiano, mentre altri ancora sono stati rilasciati con un foglio di espulsione e altri ancora sono stati deportati. Il 20 febbraio è scoppiata nuovamente una rivolta che ha danneggiato anche l’ultima area rimasta aperta, portando di fatto alla chiusura completa del Centro di Permanenza per il Rimpatrio torinese.
La repressione verso i militanti
La repressione non riguarda solamente i detenuti del CPR accusati di aver dato il via alle rivolte, ma si abbatte anche su chi cerca di portare solidarietà alle persone recluse. A Torino, per esempio, la denominata Operazione Scintilla sta vedendo condannare in primo grado 14 persone, per la lotta che portavano avanti contro l’esistenza del centro di detenzione. Una di esse è stata condannata a 3 anni di detenzione per concorso in incendio, per aver mantenuto le relazioni telefoniche con le persone recluse durante una protesta al CPR torinese. Non si capisce bene come semplici telefonate possano essere di aiuto in un incendio, eppure la pena altissima parla da sé. Quasi tutte le altre sono state condannate per istigazione a delinquere a circa un anno.
Anche durante le ultime proteste che hanno portato alla chiusura del CPR, forte è stata la campagna mediatica contro i collettivi che si organizzano per portare solidarietà ai reclusi, con l’accusa di fomentarne le rivolte. Il tentativo sembra quello di rompere ogni forma di collegamento tra il dentro e il fuori, isolando ancora di più chi transita da quei centri. D’altronde, l’uso del telefono cellulare è infatti stato vietato in molti CPR. Se prima venivano semplicemente rotte le telecamere degli smartphone, ora viene permesso solo un utilizzo sporadico di cabine telefoniche, spesso non funzionanti, ma più controllabili.
Il 13 marzo il Consiglio comunale di Torino ha chiesto la chiusura definitiva del CPR. L’assemblea cittadina ha approvato con 24 voti a favore e 8 contrari un ordine del giorno che impegna sindaco e giunta a chiedere al governo “che le risorse liberate da questa scelta siano impiegate a tutela della popolazione cittadina e a favore di una gestione delle politiche migratorie attenta ai diritti delle persone e volta a una piena integrazione”, di rivedere le leggi Bossi-Fini e Turco-Napolitano e promuovere una revisione degli accordi di Dublino. «Privano le persone della dignità, è ora di pensare ad altri modelli», ha detto la Garante dei detenuti torinese Monica Gallo.
La proposta del Comune di Torino va contro la volontà del governo di ampliare la rete dei CPR, di costruire una struttura per regione per aumentare la capienza della detenzione amministrativa e di allungare i tempi di prigionia per gli immigrati senza documenti.
L’ultima legge di Bilancio stanzia infatti 42,5 milioni per estenderne la rete e amplia le previsioni di spesa per gli anni a venire. Il decreto Cutro ha autorizzato invece nuove deroghe agli appalti fino alla fine del 2025, in modo da velocizzare la costruzione di nuove strutture, limitandone, allo stesso tempo, i controlli.
La detenzione amministrativa come tortura e strumento di controllo
«Noi secondo te abbiamo bisogno di cibo? No, possiamo arrangiarci per il cibo. Noi vogliamo la nostra libertà! È difficile dire che vogliamo cibo, vestiti… no, noi non vogliamo queste cose, vogliamo la libertà!» esclama un recluso, a seguito delle rivolte. «Vogliamo la libertà, perché non abbiamo fatto niente. Noi abbiamo le nostre famiglie qua. Lui, questo ragazzo ha qui suo fratello, sua sorella, sua mamma… ha tutta la famiglia qua, ed é ancora qua. Io ho cugini, ho una bambina di due anni! E il giudice dice no, devi aspettare qua».
Secondo quanto dichiarato da alcuni, le deportazioni avvengono spesso di notte, senza preavviso. Molte testimonianze parlano di iniezioni di sedativi e calmanti per impedire ogni forma di resistenza, e di violenze fisiche se la persona si oppone. «Nessuno sa niente, arrivano qua e ti portano via in ciabatte, mentre dormi. Non lo sai. Ti rimandano in Marocco, e devi lasciare tutto qua… Se sanno che non vorresti tornare al paese, vengono di nascosto, e ti mettono sai quelle manette di plastica… e con lo scotch ti legano, e ti portano in due, tre persone… e ti portano all’aeroporto legato. E ti danno delle mazzate così rimani zitto, hai paura e non fai nessun casino finché non arrivi al tuo Paese» dichiara un ragazzo.
«Mi hanno preso i carabinieri, e mi hanno detto “Ti stiamo espatriando”. Nemmeno il tempo di recuperare i miei vestiti, le cose… Va bene che mi hanno già rovinato la vita così… io sono in Italia dal 2004… Sono cresciuto in Italia, purtroppo mi hanno revocato il permesso per delle sciocchezze passate da minorenne… ho 26 anni, ho il mio lavoro, la mia ragazza, la mia famiglia… i miei fratelli che sono nati qui… io sono abituato alla lingua italiana, al modo di vivere italiano… non riportatemi al Paese natale, dove non sono cresciuto, non ho imparato proprio niente… E niente, lì mi hanno ammanettato, dal CPR fino all’aeroporto di Milano, e lì sempre ammanettato… come dei criminali… anche in aereo, con tutti i passeggeri che ti guardavano… é stato bruttissimo… io quel posto non lo auguro a nessuno perché é veramente bruttissimo… io non sono mai stato in carcere, ma questa esperienza é indimenticabile…».
«Mi ricordo un giorno, nei pressi di casa mia», riferisce un giovane. «Si fermano due pattuglie. Mi dicono che devo andare con loro che mi devono fare una notifica. Appena arrivato in caserma, mi rendo conto che non era una semplice notifica. Mi hanno detto che dovevamo andare due giorni da qualche parte… e mi hanno portato qua al CPR di Torino. Non è come ogni persona pensa. Una volta arrivato in quel centro, capisci tante cose. Rimani tu in una gabbia, manco così grande da farsi una passeggiata. Gli animali sono meglio di noi, perché il pastore li porta a pascolare e li lascia mangiare dove vogliono, respirano aria pulita. In quel posto non c’è sanità, né cibo buono… il cibo che ci portano lo diamo ai piccioni, che cambiano colore, si ammalano… é tutto puzzolente… Nel cibo ci buttano una terapia, sono delle sostanze che… puoi solo dormire.
«Ho visto gente torturata e picchiata… gente che viene portata in isolamento diciamo… loro lo prendono, lo portano giù, lo torturano lo picchiano non so cosa fanno… poi ce lo riportano che è distrutto… La vedi una persona quando la torturano, che gli passa la voglia di parlare con noi, di tutto…
«Ho visto gente che si è tagliata davanti ai miei occhi, ha perso un sacco di sangue… ho visto gente che si è impiccata… la gente impazziva. Urla, piange, inizia a picchiare dappertutto… poi lo prendono, lo massacrano di botte e poi lo riportano in area. Oppure gli buttano una siringa e lo portano poi in carrozzina addormentato… e quella persona poi non sa neanche più cosa le é successo. Questo é il brutto poi… La persona torna incapace di parlare… non so cosa li fanno laggiù… io per fortuna non sono mai stato là […]
«Quindi é continuato sempre così, sempre così, fino a che é arrivato il giorno in cui questa persona di età molto anziana, era un Imam, un prete, perché lui faceva la preghiera per tutte le persone che erano di religione musulmana, era lui che faceva la preghiera la mattina, pomeriggio e sera. Lui era una persona per bene, non aveva mai fatto nient’altro… un giorno era svenuto dalla fame, perché aveva fatto lo sciopero di dieci giorni, niente acqua, niente cibo, perché il cibo fa veramente schifo, é una cosa incredibile […] La rivolta é iniziata il giorno in cui le guardie e i dottori non hanno fatto niente per la persona che è svenuta, che ha fatto 10 giorni di sciopero… e anche quando é svenuta, che era vicino ai cancelli, davanti all’area, davanti ai militari, noi pregavamo i militari, tutti quanti, di poter chiamare qualcuno, nessuno lo cagava, ma bensì “ah, non ha voluto mangiare, ora si arrangia». E lì è iniziata la rivolta.
«Sono veramente contento di aver sentito che adesso é chiuso. Perché non vorrei mai che un prossimo passi quello che ho passato io».
[di Monica Cillerai]