“Notte venne dal cielo… Sotto l’orrenda raffica dei venti contrari… Lontano fu gettato dalla barca, molto tempo rimase sommerso, finalmente riemerse … riafferrò la zattera infine e vi sedette nel mezzo, scampando alla fine”. Ulisse sfugge all’ira di Poseidone che aveva radunato i venti contro di lui per vendetta e riesce a evitare la morte.
Omero nel quinto libro dell’Odissea racconta la vicenda estrema dell’eroe che tuttavia non tanto rappresenta qualcuno di speciale ma piuttosto fa da modello di comportamento, da paragone al verificarsi degli incidenti di percorso della vita degli esseri umani e delle comunità, alle prese con la potenza della natura. Ulisse, Odisseo detto alla greca, è uomo dalle mille risorse, fronteggia le avversità con la tenacia e con l’astuzia prima che con la forza, quasi che l’intelligenza, le doti di carattere valessero di più della energia pura e semplice.
Ma l’acqua, il mare, come mostrò il maestoso, terrificante esempio del diluvio universale, possono diventare le potenze naturali più devastanti, che però contengono il carattere di prova estrema, dove è necessario esprimere tutte le capacità ed unirle. L’evento naturale si trasfigura e da manifestazione potentemente concreta si trasforma in una dimensione morale, umana, quasi fosse capace di rivelare dimensioni e potenzialità ignote. D’altra parte lo scatenarsi della natura, l’orizzonte apocalittico prevede comunque che qualcuno scamperà perchè tutto deve ricominciare.
La tempesta, il diluvio annunciano infatti sempre la necessità di tempi nuovi, il bisogno di una trasformazione.
Tifone di Joseph Conrad, 1902, racconta la caparbia determinazione di Tom, il comandante che sceglie una rotta sconsigliata e poi affronta nel Mar cinese meridionale una tempesta tropicale terrificante, conquistando finalmente la fiducia dell’equipaggio a lui ostile, e arrivando a destinazione. Sappiamo benissimo che Conrad visse esperienze marine al limite ma anche qui il racconto di mare, del “mare che ti urla contro”, è metafora della vita, dei rapporti estremi e rivelatori che si instaurano tra le persone, e anche della particolare solitudine che si presenta nei momenti di difficoltà, quella che nel mondo antico faceva parlare della vita come navigazione e della navigazione come allegoria dei tormenti e della salvezza. “La vita è tempesta, e tempesta sia” (Herman Melville).
Una solitudine speciale però, nel senso che siamo chiamati a mettercela tutta, a fare ricorso anche a risorse che non abbiamo mai dimostrato di avere; una solitudine relativa che, ogni volta, ci fa incontrare sconosciuti intrepidi e generosi che ci danno una mano, diventando parte della nostra famiglia, testimoni di una umanità che si risveglia in momenti critici, dove è indispensabile l’apporto di tutti e di ciascuno. Una solitudine che può ingaggiare con noi la sfida metafisica dell’oltre e del divino.
“Quella eternità di istante… e poi lo schianto rude”, scriveva Eugenio Montale nella poesia La bufera, per dare una immagine concreta ai momenti critici della esperienza umana alle prese con lo scontro con la storia atroce e con il destino.
Ma anche il vento come fantasma, come “spettro di smeraldo”, e il “fulmine come serpente elettrico” nella poesia di Emily Dickinson sulla tempesta: “and rivers where the houses ran”, “e i fiumi in cui correvano le case”. Ancora di recente lo abbiamo potuto vedere nel nostro Paese, carichi di emozione e di angoscia.
Jack London scriveva che nelle tempeste si vede chi è conformista e chi è ribelle. Ma si vede, si certifica, se volete banalmente, che siamo (quasi) tutti sulla stessa barca e che chi si sente sempre in un porto sicuro vuol dire che non ha mai navigato.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]