Per dettagliare l’urgenza evidente di un tema che dovrebbe occupare le giornate dei rappresentanti dei cittadini e invece è lontano anni luce da ogni dibattito possono bastare pochi dati: il 94% dei comuni italiane è a rischio di dissesto idrogeologico, tramite erosione costiera, alluvioni e frane, con un aumento del 3% in un anno. 8 milioni di italiani vivono in aree classificate a grande pericolosità per frane e alluvioni: oltre 300mila km² di territorio che sono bombe ad orologeria in caso di grandi piogge. Nel 2022 si sono registrati 310 eventi atmosferici estremi in tutta Italia, capaci di provocare la morte diretta di 29 cittadini e danni per miliardi di euro. E se le piogge sono eventi che non possiamo controllare, non è così per i danni che potrebbero essere minimizzati da una gestione ordinata, coordinata e consapevole del territorio. In pratica l’esatto contrario di quando storicamente fatto da ogni governo italiano. Eppure non sarebbe certo impossibile porre rimedio alla situazione, se solo il tema della protezione del territorio venisse finalmente trattato come quello che è: una parte fondamentale delle politiche pubbliche la cui malagestione significa morti evitabili e una montagna di soldi pubblici persi. La logica suggerirebbe, da parte delle istituzioni, una risposta chiara, ben programmata ed efficiente, lontana da sprechi, sparizioni di fondi e inadeguatezza politica.
Diversi decenni fa l’ex presidente Francesco Cossiga affermava che «il paradigma culturale dell’imperfezione genetica lega con un filo forte la storia dello sviluppo politico dell’Italia unita». I tempi odierni raccontano ancora e irrimediabilmente lo stesso vizio. Le azioni attuabili in relazione al rischio rappresentato dal dissesto idrogeologico, e dunque dalla serie di eventi naturali, possono essere distinte in previsione, mitigazione e prevenzione. La prima, secondo l’articolo 3 comma 2 della legge n. 225 del 1992, consiste nelle “attività dirette allo studio e alla determinazione delle cause dei fenomeni calamitosi, alla identificazione dei rischi ed alla individuazione delle zone del territorio soggette ai rischi stessi”. In poche parole, la previsione è la capacità di anticipare l’occorrenza di un evento. Per farlo, è necessaria una dettagliata mole di dati e di analisi. Nascono così i sistemi di monitoraggio che, una volta conosciute le relazioni causa effetto di un evento, sono in grado di “anticiparlo”. La mitigazione riguarda, invece, le attività volte a ridurre gli effetti di una catastrofe. Entra in gioco così la prevenzione che, secondo il comma 3 dello stesso articolo, consiste nelle “attività volte ad evitare o ridurre al minimo la possibilità che si verifichino danni conseguenti agli eventi pericolosi anche sulla base delle conoscenze acquisite per effetto delle attività di previsione”. Nello specifico, si tratta di una serie di interventi sia strutturali, come le opere di regimazione delle acque per evitare che confluiscano su una frana potenzialmente attiva, sia non strutturali, che si traducono dunque in pianificazione territoriale, gestione del territorio, consapevolezza della popolazione e così via. Appare quantomeno lecito interrogarsi sullo stato delle azioni attuabili in relazione al rischio idrogeologico e sull’interesse della politica verso queste ultime.
Il complicato rebus della politica italiana
A maggio 2017 l’allora Struttura di Missione Italiasicura – creata nel 2014 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri contro il Dissesto Idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche e riqualificazione dell’edilizia scolastica – sosteneva che, per mettere in sicurezza l’Italia da frane e alluvioni e ridurre il rischio idrogeologico, fossero necessarie 9.397 opere per un fabbisogno complessivo di 27 miliardi di euro. Un costo enorme, senza dubbio, ma alla prova dei conti di poco superiore rispetto a quanto tirato fuori senza batter ciglio tra il 2015 e il 2018 per salvare le banche in crisi. Invece l’Italia, dal 1998 al 2018, ha speso in media la miseria di 300 milioni l’anno per la prevenzione del dissesto idrogeologico.
Con gli esecutivi guidati da Giuseppe Conte qualcosa si è mosso nell’agenda politica: al 2019 risale il Piano nazionale contro il dissesto idrogeologico Proteggi Italia, che ha stanziato – per il triennio 2019-2021 – 3,958 miliardi di euro per la prevenzione e, specificamente, “per interventi strutturali, su impulso dei Presidenti di Regione in qualità di commissari straordinari per il dissesto”. Sul lungo periodo erano stati previsti, invece, 2,641 miliardi di euro fino al 2030, che si riducono nuovamente a 300 milioni annui per la prevenzione. Anche per il 2020-2021, quando il tema ha iniziato a ritagliarsi uno spazio maggiore nell’opinione pubblica, il Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico si è fermato a uno stanziamento di 262 milioni, per un totale di 119 interventi in 19 Regioni italiane.
Un Paese che evidentemente non ha fatto propria la massima “prevenire è meglio che curare”, dal momento in cui ha speso dal 1944 al 2020 ben 75 miliardi di euro per riparare i danni causati dal dissesto (circa un miliardo l’anno). Così, il rapporto tra la spesa per la prevenzione e quella per riparare i danni, che nulla può per la perdita della vita umana, è di circa 1 a 3. Emerge una tendenza preoccupante, in cui le istituzioni sottostimano la necessità di progettare una seria politica di previsione e prevenzione ma si limitano a mettere delle toppe qua e là.
Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), figurano 2,5 miliardi di euro contro il dissesto idrogeologico. Secondo i dati risalenti allo scorso dicembre, non è stato speso un centesimo. Se è vero, da un lato, che la scadenza dei fondi è fissata al 2026, dall’altro emerge la reale considerazione del tema, che ancora non viene affrontato come una priorità, nonostante gli eventi calamitosi siano in aumento negli ultimi anni. Si tratta di fondi in capo al ministero dell’Ambiente, risorse a chiamata in base ai progetti presentati dalle Regioni che a loro volta li destinano pro-quota ai comuni una volta individuate le priorità. Alessandro Trigila, ricercatore dell’ISPRA a capo del dipartimento dei fenomeni franosi, denuncia un cortocircuito normativo relativo alla difficoltà nel capire quanto (e come) le Regioni comunicano al ministero dell’Ambiente le richieste di finanziamento per gli interventi contro il dissesto. Ad ogni modo si tratta di interventi sofisticati che presuppongono una pianificazione puntuale. L’ex viceministro all’Ambiente, Roberto Morassut, ha parlato al Corriere della Sera della riforma relativa al dissesto idrogeologico rimasta lettera morta. Tra le misure, figura la semplificazione delle procedure di esproprio per favorire gli interventi di demolizione, a cui si aggiungono i «nuclei regionali di valutazione delle priorità e una pagella per le Regioni. Una patente di merito per chi i fondi li spende e chi invece no e dunque è inadempiente e a cui andrebbero sottratti i fondi. Tutto fermo. Come la creazione di task force provinciali fatte di ingegneri, geometri, esperti di morfologia del territorio». Figure mancanti sul mercato, che latitano già nelle università, sia per la scarsa riconoscibilità sociale che portano con sé sia per gli stipendi troppo bassi nel pubblico impiego. Riqualificare e riutilizzare gli immobili è una strada ancora poco battuta, soprattutto se rapportata al fenomeno – lasciato nel vuoto normativo da parte del legislatore – del consumo di suolo che, accompagnato da cementificazione e deforestazione, rappresenta uno degli input del dissesto. «Si privilegiano le nuove opere sulla manutenzione di quelle vecchie, evitando di fare chiarezza anche sulla pletora di incentivi che riguardano le ristrutturazioni edilizie», segnala Stefano Ciafani, presidente di Legambiente.
Le mosse del governo Meloni
A novembre scorso, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) aveva denunciato la mancanza di fondi relativi al completamento della Carta geologica d’Italia, ovvero la mappatura del suolo e sottosuolo nazionale (CARG), indispensabile per riuscire a contenere i disastri, mettere in sicurezza i territori e procedere ad un’idonea pianificazione urbanistica. Mediante la CARG è possibile ricavare informazioni relative all’individuazione delle risorse idriche ed energetiche a quelle minerarie, alla descrizione delle aree idonee allo stoccaggio delle scorie radioattive o alla progettazione di infrastrutture sicure. Il progetto è stato avviato negli anni ‘80 e prevede la realizzazione di 636 fogli geologici e geotematici in scala 1:50.000 che compongono l’intero territorio nazionale. In circa vent’anni, periodo in cui il progetto è stato finanziato con una certa regolarità, sono stati realizzati 281 fogli geologici (circa il 45% della copertura totale), 30 fogli geotematici e 6 fogli di geologia della piattaforma continentale adriatica alla scala 1:250.000. Poi due decenni di assenza di finanziamenti e quindi battuta d’arresto per la CARG, che con i governi guidati da Giuseppe Conte prima e Mario Draghi poi ha raccolto nuovi fondi ed elaborato dunque nuove informazioni.
Alla denuncia dell’ISPRA ha fatto seguito il rinnovo delle risorse nella prima legge di bilancio dell’esecutivo Meloni, che ha deciso di stanziare per il progetto circa 32 milioni di euro (8 milioni per il 2023 e 24 per il biennio successivo). Il nuovo governo ha poi pubblicato il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), un documento già redatto da molti Paesi europei che chiarisce la strategia da mettere in atto contro l’avanzamento delle emergenze atmosferiche all’interno del proprio territorio. L’Italia ne era ancora priva, nonostante sia uno dei Paesi europei più colpiti dal fenomeno. «Un ottimo studio, ma non un piano», lo ha definito Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente dal 2011 al 2022. Le sue parole evidenziano, infatti, le lacune di un documento che avrebbe dovuto offrire soluzioni concrete, e che invece si limita ad elencare obiettivi generici. Andrebbero stabilite delle priorità, stanziate risorse precise e adeguate e cambiate le norme che alimentano fenomeni dannosi, come l’abusivismo. La maggioranza ha assicurato che questo avverrà nei prossimi mesi, in seguito al completamento del Piano, il quale seguirà una consultazione pubblica come previsto dalla procedura di Valutazione Ambientale Strategica. Il procedimento dovrebbe completarsi entro marzo, mese in cui dovrebbe insediarsi l’Osservatorio Nazionale, ovvero l’organo incaricato di garantire l’immediata operatività del Piano. Secondo il governo, “l’Osservatorio definirà le priorità, individuerà i soggetti interessati e le fonti di finanziamento, oltre che le misure per rimuovere gli ostacoli all’adattamento”. Staremo a vedere.
Abbattere il rischio idrogeologico è possibile
La priorità delle azioni volte a mitigare il rischio idrogeologico segue la natura delle aree. Con i territori già edificati sono necessari interventi strutturali e non strutturali che vanno dalle opere di ingegneria per il consolidamento dei pendii instabili e la difesa dalle alluvioni, alle delocalizzazioni, alle reti di monitoraggio strumentale e/o di allertamento. Per le zone non ancora edificate è invece fondamentale sviluppare in posti sicuri le aree di nuova urbanizzazione, con particolare attenzione per gli edifici strategici quali ospedali, scuole e uffici pubblici e attuare una corretta pianificazione territoriale, mediante l’applicazione di vincoli e regolamentazione d’uso del territorio (PAI), che costituisce l’azione più efficace di riduzione del rischio nel medio-lungo termine. Soltanto con un’adeguata conoscenza del territorio è possibile pianificare interventi su misura e dunque efficaci. Buona parte della Carta geologica d’Italia è stata realizzata. Si potrebbe iniziare a intervenire con criterio e programmazione nelle zone mappate, invece di rimandare al futuro. Tale ritardo potrebbe, tuttavia, essere interpretato alla luce degli studi della geografia sociale urbana, che analizza la relazione tra potere e pianificazione e, in particolare, l’influenza del primo sulla seconda per preservare quella che diversi autori definiscono “riproduzione sociale”, in riferimento al mantenimento stagno delle classi. La pianificazione territoriale oscilla dunque, come un pendolo, tra la finalità sociale e l’egoismo politico. Chi possiede il potere modifica a suo piacimento lo spazio in cui vive la popolazione, decidendo quali zone tutelare, quali lasciare nel degrado (primo step della gentrificazione) e in quali posizionare i servizi.
[di Salvatore Toscano]
Grazie S. Toscano, ottimo articolo che mette in evidenza come la classe politica italiana, con rari distingui, sia lontana milli miglia dalle esigenze e gli interessi della gente. Dovrebbero smetterla però di andare nelle zone disastrate e dire sempre le stesse frasi come ha fatto il democristiano Mattarella in Emilia Romagna: “NON VI LASCEREMO SOLI”.