martedì 5 Novembre 2024

“Come un bombardamento”: reportage dai luoghi dimenticati dell’alluvione in Romagna

Alle dieci l’aria è già quella di una mattinata di piena estate. Non un filo di vento agita le fronde degli alberi, un sole deciso scalda la pelle. Tutt’intorno, il silenzio è solo apparente: un concerto ininterrotto di canti di uccelli e un brusio di api riempie l’aria, mentre in lontananza un ronzio sommesso e continuo indica che qualcuno sta tagliando la legna con una motosega. Oltre il muretto della terrazza la vista spazia sui pendii verde brillante della valle del Borello, ricoperti in gran parte da boschi vergini. L’unica costruzione visibile dal mio punto di osservazione è un allevamento di pecore di pastori sardi, su un piccolo promontorio. Proseguendo oltre con lo sguardo si arriva fino ai grattacieli bianchi di Milano Marittima, distanti una quarantina di chilometri, scintillanti nel sole del mattino. E, oltre quelli, il mare. Sul tavolo è disposta con cura la colazione: piadine, pane casereccio, miele autoprodotto, torta e caffè. «Pazzesco» commenta all’improvviso Ignazio, il cui sguardo sorvola assorto il panorama visibile dalla casa di famiglia, «sembra che non sia successo niente».

In effetti, uno sguardo distratto e poco esperto non coglie immediatamente le incongruenze che ci sono in quel paesaggio da cartolina. A mostrarmele sono stati lui e i suoi fratelli, Domenico e Agnese, che abitano quelle terre dalla nascita. «Vedi quei punti in cui si vede la terra? Quelle sono tutte frane» mi aveva spiegato Domenico il giorno precedente. Con la mano le indicava a una a una, mentre con la macchina percorrevamo la E45 da Cesena a Nuvoleto, il piccolo borgo incastonato tra le colline della valle del Borello, nel cuore della Romagna. «Qui normalmente le pendici delle colline sono tutte ricoperte di vegetazione. Dove vedi roccia a vista è perché c’è stato un cedimento». Man mano che l’occhio si allena a riconoscere le anomalie del terreno, ci si rende conto dell’entità del danno. Le colline sono puntellante di frane. Ve ne sono di ogni dimensione e ad ogni altezza, alcune immediatamente prossime alla strada. Sono le cicatrici permanenti che l’alluvione del 15 e 16 maggio ha lasciato in questa valle e in quelle intorno: più di cinquecento, dicono le stime, anche se nessun dato è ancora certo.

Colline della valle del Borello: i punti dove si vede la terra sono tutte zone in cui il terreno è franato.

Qualche vittima dei crolli c’è stata. Un uomo, travolto dopo essere uscito di casa per monitorare la situazione, e una coppia del luogo. «Vista l’entità del danno, quassù poteva potenzialmente essere una strage» commenta Domenico. In alcuni punti la terra è sprofondata per diversi metri, come succede quando vi è un terremoto. Interi campi sono collassati anche di una decina di metri, scavando il segno del dislivello sul crinale delle colline. Lo stesso è successo alla strada che percorre gli ultimi tre chilometri prima di arrivare al borgo di Nuvoleto. In alcuni tratti il bordo esterno si è staccato ed è sprofondato, in altri le frane che sono rotolate giù per il versante della collina hanno travolto il percorso e riempito la strada di detriti e vegetazione. In un punto la strada è sprofondata per alcuni metri, producendo dei dossi molto profondi. «Qui prima non era così: la strada era tutta in piano, leggermente in salita per arrivare fino a Nuvoleto. Questi dossi non c’erano» mi viene spiegato.

È qui che l’entità del disastro comincia a palesarsi con maggior chiarezza. «I geologi che sono venuti a fare i sopralluoghi dubitano che questa strada possa essere risistemata così com’è, perché il versante della collina si sta spostando» spiega Agnese. «Di conseguenza, la strada continuerà a spostarsi e a sprofondare. Probabilmente andrà ripensato l’intero tragitto, che dovrà passare per un punto totalmente diverso. E questa è solo una delle centinaia e centinaia di strade che si trovano in questa situazione». Il costo per un’operazione del genere su una singola strada è stimato intorno al milione di euro.

L’impatto dell’alluvione è stato tale che la morfologia del territorio in queste zone è cambiata. Dai versanti delle colline al percorso dei fiumi, è tutto da rivedere e riscrivere. «Qualche mese fa abbiamo fatto la mappatura dei sentieri della zona. Ormai non vale più, è tutta da riscrivere e da cambiare» spiega Ignazio, medico di base e assessore del comune di Mercato Saraceno. Qui non c’è spazio per il rimpallo di responsabilità politiche e gestionali. La causa, per gli abitanti del luogo, è una ed è evidente: il riscaldamento climatico.

«Prima di questo maggio il problema in queste zone era la siccità» mi spiega Domenico. «Ha nevicato un pochino quest’inverno, ma la mancanza di acqua stava cominciando a diventare un serio problema, quanto nel resto d’Italia». Poi, all’improvviso, dal cielo è caduta in appena 36 ore la quantità d’acqua che normalmente cade in otto mesi e il suolo arido non è stato in grado di assorbirla come avrebbe dovuto. «L’acqua si è infiltrata nel terreno, ma questo non l’ha assorbita e la pressione che ne è derivata ha causato buona parte delle frane». Si parla di una media di 150 litri di acqua caduti per metro quadro in meno di due giorni, che in alcuni punti arriva a 250. Un evento meteorologico di intensità estrema, dei quali negli ultimi anni l’Italia è sempre più teatro. Tuttavia, ad oggi, nessun governo è ancora stato in grado di predisporre un piano adeguato per farvi fronte.

I tecnici avevano previsto fenomeni meteo intensi, disponendo per questo la chiusura delle scuole quando nel cielo ancora brillava il sole. Decisione che, ammettono gli abitanti, li aveva lasciato non poco perplessi. Tuttavia forse nessuno aveva davvero compreso quale sarebbe stata l’entità del fenomeno. Appena la pioggia ha smesso di cadere, poi, è tornato il caldo soffocante, che ha asciugato il fango dandogli la consistenza del cemento. Fino a che non pioverà di nuovo, non si potrà capire in quali zone è necessario intervenire, quali frane torneranno in movimento e dove invece il territorio rimarrà stabile. Solo quando saranno chiari questi dettagli si potrà pensare alla maniera migliore di procedere con la ricostruzione. Tuttavia, l’ipotesi di nuove perturbazioni agita non poco la popolazione locale, che ancora deve riprendersi dallo shock di quanto accaduto.

Ponte delle Tombette: uno dei punti in cui le frane, unite alla furia dell’acqua, si sono aperte un varco nella collina.

«È un processo lento, quello della ricostruzione. Andrà monitorata la situazione del territorio, saranno necessari degli studi per valutare la natura degli interventi. A sentire la politica e i giornali sembra sia necessario intervenire in fretta e furia, forse per far vedere che si sta facendo qualcosa. Ma non è così che può funzionare in questa situazione. Bisogna avere pazienza, criterio, bisogna fare degli studi e capire in che modo è cambiato il territorio, per poter spendere i soldi in maniera adeguata. Altrimenti si rischia di dover fare lavori fatti male, che non dureranno» commenta Ignazio. D’altro canto, mi spiega la sindaca di Mercato Saraceno, Monica Rossi, la conta dei danni è ancora in corso, anche se non vi sono più persone isolate nella zona. Secondo le stime preliminari della Regione, saranno necessari almeno 10 miliardi di euro per rimettere in piedi le zone alluvionate. Il governo ha annunciato lo stanziamento di fondi, ma ancora non si sa come verranno distribuiti. «Giù a Cesena e nelle altre zone è stato un disastro, perché la quantità d’acqua che è venuta ha distrutto case, attività, ha messo la gente in ginocchio. Ma una volta liberata la città dall’acqua e dal fango, si può pensare a rimettersi in piedi. Qui non sarà così: noi non sappiamo quanto tempo ci vorrà per tornare ad avere strade percorribili o a sapere dove il terreno è stabile o no. Immagina questo cosa vuol dire per tutti coloro che qua avevano allevamenti, campi coltivati, frutteti e via dicendo» spiega Domenico.

Nessuno era preparato all’eccezionalità dell’evento che si è manifestato. Nemmeno gli anziani del luogo hanno memoria di un evento del genere. «Mai vista una cosa simile» racconta la signora Romana, 80 anni, 60 dei quali trascorsi a Nuvoleto. Insieme al marito, lavoravano la terra e ne vendevano i frutti, tra i quali le ciliegie provenienti dai 60 alberi piantati nei pressi del borgo. «Un’estate abbiamo raccolto in due sessanta tonnellate, solo io e mio marito» mi racconta, gli occhi che le brillano sul volto abbronzato, segnato da profonde rughe. Dopo il passaggio delle frane, buona parte di quel campo è stato spazzato via.

I racconti di chi, durante la notte dell’alluvione, si trovava in casa, sulle colline, si somigliano molto tra loro. La gente descrive profondi boati provenienti dalla montagna, rumori che solo successivamente sono stati ricollegati alle frane in corso. A tratti, questi venivano accompagnati da un fragore assordante, prodotto dal legno che si spaccava sotto il peso della terra che rotolava a valle. Nella loro devastazione, le frane hanno portato via con sé pali della luce e i collegamenti del gas e dell’acqua. Immersi nel buio, raccontano i residenti, era impossibile capire da che parte provenisse quel fragore e cosa lo stesse causando. In molti riportano di aver trascorso un’intera settimana insonne, ad ascoltare i rumori dei boschi per capire se vi fosse un altro disastro imminente. «Non so se mi riprenderò mai da quello che ho vissuto quella notte» afferma Matteo, la cui famiglia è proprietaria della Manucci Escavazioni Demolizioni, un’azienda di movimento terra. La loro casa, insieme alla sede dell’azienda, si trova in via del Convento, nel borgo di Linaro, poco più avanti del ponte di via delle Tombette. Sotto quel ponte passa un sottile corso d’acqua che, a memoria dei residenti, non è mai stato più che un rigagnolo. La notte dell’alluvione quel rigagnolo ha aumentato a dismisura la propria portata, convogliando detriti e vegetazione franata dalla cima della collina. Nel giro di due ore, un cannone d’acqua carico di fango e tronchi si è riversato sul terreno circostante l’abitazione, salva solo per miracolo. Il resto è stato travolto e distrutto. Sono stati necessari duecento camion per portare via la legna accumulatasi sul terreno. Tra i cumuli di fango, si contano i danni all’attività di una vita.

Il terreno dell’azienda Manucci, prima e dopo l’alluvione

L’indomani, la popolazione si è risvegliata in una valle che «sembrava bombardata». Non c’è metafora che calzi meglio, affermano tutti. Nelle zone più remote, come il borgo di Nuvoleto, gli abitanti hanno dovuto essere evacuati con gli elicotteri, ma in molti vi hanno fatto ritorno autonomamente un paio di giorni dopo, appena la strada è stata resa percorribile. Ci hanno pensato i giovani del luogo a renderla agibile, lavorando senza sosta per liberarla dai detriti. Ora è tornata anche la corrente elettrica, grazie a un generatore consegnato dai tecnici dell’Enel con un elicottero. E mentre ancora si calcolano i danni, si fanno i conti con quello che potrebbe essere il destino della valle. «Il rischio maggiore, qui, è lo spopolamento» spiega Agnese. Alcuni dei residenti, soprattutto famiglie con figli, stanno già cercando casa altrove, più a valle. «Nuvoleto va tutelata perché ci sono più bambini qui che in altri posti, ce ne sono persino di più che a Linaro» mi spiega, «e la presenza dei bambini è importante, perché dà un’idea di futuro. C’è una grande ricchezza qui, naturale ma anche culturale e sociale, che andrà persa se non vi è stanziamento, se i giovani decidono di non volerci più vivere». Lo spopolamento, inoltre, comporta anche un mancato presidio del territorio, senza il quale è impossibile monitorare lo stato delle colline e prevenire eventuali fenomeni di dissesto in futuro.

L’esterno dell’azienda Manucci all’indomani dell’alluvione

Ma se, da un lato, le famiglie e i giovani sono incerti sul restare o meno, i residenti più anziani, quelli che per primi si sono stanziati qui, non hanno intenzione di andarsene. «Siamo venuti qui nel 1983 con l’idea di vivere una vita diversa» racconta Venanzio, guardando sua moglie Maria. «Abbiamo appena ristrutturato tutta la casa, non abbiamo intenzione di andarcene». Lo stesso vale per Romana, la più anziana tra i residenti di Nuvoleto. Eppure, sono stati proprio i giovani i primi ad attivarsi per organizzare una raccolta fondi per ricostruire la strada di collegamento a Nuvoleto. Sanno che le risorse della Regione tarderanno ad arrivare, ma non c’è rabbia o risentimento per questo. L’intera Regione è in ginocchio, e noi non siamo certamente quelli messi peggio, mi ripetono. Per di più si tratta di una strada vicinale, motivo per il quale il 50% della spesa è comunque a carico dei residenti. Però è importante che gli abitanti del borgo non abbandonino le proprie case. Per quello è necessario che la strada venga ricostruita quanto prima. E proprio i giovani si sono attivati per primi, per liberare la strada dai detriti e dalle macerie.

La rete di solidarietà che si è venuta a creare tra la popolazione locale è fitta ed estremamente solida. «Ancora prima che telefonassimo noi per dire che avevamo bisogno di mezzi per pulire le strade, le ditte di Cesena e qui intorno che si occupano di movimento terra ci hanno mandato i loro mezzi» racconta Ignazio. Chiunque possieda mezzi o conoscenze li ha messi a disposizione della comunità. Una mobilitazione spontanea di fondamentale importanza, in un momento in cui la Regione fatica a far sentire la propria presenza. «Da noi si sono presentati due inviati della Provincia, per vedere com’era la situazione, ma ancora non abbiamo visto i geologi. Non sappiamo se corriamo dei rischi o meno rimanendo qui» mi racconta Matteo. Alle spalle della sua abitazione, sul versante collinare, si vedono le tracce di una frana. Non è dato sapere, al momento, se sia ancora in movimento.

Linaro. Una frana ha trascinato con sé i pali dell’alta tensione, sfondando la strada sottostante e riversandosi nel fiume.

L’unica polemica che viene mossa è quella riguardo il mancato incarico a Bonaccini di commissario alla ricostruzione. Vero che è sempre meglio trovarsi a fronteggiare un male conosciuto, rispetto che a uno del tutto nuovo – in questo caso, un tecnico scelto dal governo. Eppure sarebbe il momento di fare, una buona volta, una riflessione seria sul senso di accentrare il potere decisionale in contesti di emergenza nelle mani di una sola persona. In un caso come quello dell’alluvione in Romagna, il territorio è stato colpito in maniera estremamente varia. Le esigenze di città come Cesena, Forlì e Ravenna non sono evidentemente le stesse di chi popola le colline e piccoli borghi, come Nuvoleto. Pensare che una sola persona possa farsi carico della gestione della risposta all’emergenza e operare in maniera ottimale è difficilmente credibile. Lo si è visto anche nel caso di altre emergenze, come quella legata alla pandemia da Covid: il sistema dei commissari è fallimentare. Non va inoltre dimenticato che, negli otto anni in cui Bonaccini è stato commissario al dissesto idrogeologico in Romagna, la cementificazione del territorio è stata tra le più alte in Italia.

Eppure, in queste zone della Romagna, la popolazione è altamente resiliente. Dopo il panico iniziale, nessuno si è arreso e perso d’animo. Ciascuno ha contribuito, come ha potuto, a rendere la valle di nuovo abitabile. «Mio nonno diceva sempre una cosa» mi dice Marco, uno dei figli di Maria e Venanzio, allungandomi un bicchiere di birra. «Diceva: ‘La terra ti insegna a essere umile, perché per lavorarla devi metterti in ginocchio. Non è lei a salire da te’». Rimango qualche momento in silenzio, ad assaporare il senso di quella frase e imprimerlo nella mia mente. Poco dopo, Maria ci chiama invitandoci a entrare in casa: la cena è pronta. Nell’aria c’è un clima disteso, come quello di una domenica qualunque. Alle nostre spalle, il sole scivola piano dietro le colline.

[di Valeria Casolaro]

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