Nonostante si parli spesso di un “conflitto israeliano-palestinese” quella sotto cui vivono migliaia di cittadini in Palestina è, di fatto, un’occupazione militare. Secondo Amnesty International, un vero e proprio sistema di apartheid. Che nella città di Hebron si mostra in tutta la sua brutalità. Al Khalil, ovvero l’amico più caro, è il nome arabo della città palestinese meglio conosciuta con l’appellativo ebraico di Hebron. Situata a trenta chilometri a sud di Gerusalemme, dove i campi di ulivi iniziano a lasciare spazio ad un paesaggio più aspro, Hebron è la città più popolosa della Cisgiordania. Se anni fa era un fiorente centro culturale, Hebron adesso è conosciuta come la città dell’apartheid. È qui, infatti, che l’occupazione mostra il lato più brutale, dove un manipolo di coloni israeliani occupano illegalmente una parte della vecchia città e, protetti dai soldati dello Stato sionista, impediscono la libertà di movimento dei cittadini palestinesi.
Hebron è infatti l’unico luogo in Cisgiordania in cui gli insediamenti israeliani, vere e proprie colonie considerate illegali dal diritto internazionale, si trovano nel cuore stesso della città, piuttosto che intorno a essa. La città è infatti divisa in due parti: H1, sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, dove risiede la maggior parte degli oltre 200.000 abitanti palestinesi, e H2, sotto controllo militare israeliano. A H2, che comprende anche il centro storico di Hebron, patrimonio Unesco, abitano oltre 30.000 palestinesi e circa 800 coloni israeliani. Qui le strade sono un susseguirsi continuo di posti di blocco – ce ne sono 22 solamente nella città vecchia – muri, cancelli, recinzioni e fili spinati che separano gli insediamenti israeliani dalle strade in cui abitano i palestinesi.
Spesso israeliani e palestinesi vivono in case adiacenti, o addirittura coabitano nello stesso edificio, e solo le bandiere – israeliane o palestinesi – issate al di fuori delle finestre sprangate permettono di capire chi vi risiede. Nella zona del mercato, i coloni israeliani abitano addirittura sopra alle case palestinesi, e dalle loro finestre gettano rifiuti sulle strade sottostanti. Sopra alle bancarelle del mercato sono quindi issate reti di protezione, sulle quali restano impigliati scatoloni, rifiuti, e sacchetti di plastica gettati dagli israeliani.
Mentre i coloni sono soggetti alla legge civile israeliana, i palestinesi che abitano nell’area H2 vivono sotto legge militare. Questa prevede limitazioni alla libertà di movimento – solo ai coloni è concesso circolare in autoveicoli, e in diverse strade l’accesso è completamente vietato ai palestinesi – così come la chiusura dei negozi palestinesi – oltre 1800 negozi sono stati chiusi – e l’attuazione di misure di coprifuoco. Queste misure creano un’atmosfera spettrale in molte zone di H2, tra cui la città vecchia: a differenza del caos, del traffico e del misto di suoni e odori che riempiono le strade di H1, la parte di Hebron sotto controllo israeliano sembra una città fantasma.
Fucili puntati e telecamere di sorveglianza
l posto di blocco che permette di entrare a Tel Rumeida, insediamento israeliano nel cuore della città vecchia di Hebron, è sorvegliato da militari con il fucile puntato sulla strada. Sopra al tornello attraverso cui bisogna camminare, di fianco a numerose telecamere, è installato un fucile automatico. Una volta superato il posto di blocco, ci si lascia alle spalle il caos della città: le strade di Tel Rumeida, quasi tutte chiuse ai palestinesi, sono infatti completamente vuote e silenziose, percorse quasi esclusivamente da militari israeliani armati fino ai denti. Le vetrine sbarrate dei negozi palestinesi che sono stati costretti a chiudere creano un’immagine di abbandono e desolazione. Il senso di tensione costante è intensificato dall’onnipresenza delle telecamere di sorveglianza, installate in ogni strada dell’insediamento.
«Si può comprendere la situazione di Hebron solo vedendola con i propri occhi», dice Issa Amro, attivista palestinese e fondatore dell’associazione Youth Against Settlements. Issa abita proprio di fianco all’insediamento di Tel Rumeida: solo un muro in lamiera sormontato da filo di ferro separa la sua casa da quella adiacente dove, spiega Issa, abita un colono israeliano. A qualche metro di distanza è appostato un soldato, lo sguardo diretto verso il muro della casa di Issa su cui è riportato l’articolo della convenzione di Ginevra che definisce l’illegalità degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Issa ci spiega che, in quanto palestinese, non può attraversare il checkpoint di ingresso a Tel Rumeida, nè accedere a molte delle strade all’interno dell’insediamento, tra cui il vialetto che porta a casa sua: è obbligato invece a percorrere una strada più lunga attraverso un giardino di ulivi. «A Hebron vige un vero e proprio apartheid», dice l’attivista: anche Amnesty International utilizza il termine apartheid per descrivere l’occupazione israeliana – non solo a Hebron ma in tutta la Palestina.
«Ad oggi, a Hebron sono migliaia i negozi chiusi e le abitazioni palestinesi vuote, e centinaia le limitazioni al movimento, tra posti di blocco e strade chiuse ai palestinesi – racconta Issa – quasi tutte le strade di H2 sono vuote e desolate, per questo chiamiamo Hebron una città fantasma.» L’attivista spiega inoltre che l’occupazione israeliana sta cancellando l’identità palestinese della città: «i nomi di molte vie sono stati cambiati da nomi arabi a nomi israeliani, e ci sono bandiere israeliane ovunque.»
Le violenze e umiliazioni sono quotidiane: «a Hebron – racconta Issa – i palestinesi subiscono violenze sia da parte dell’esercito, con le incursioni, le uccisioni, gli arresti e le detenzioni, ma anche da parte dei civili israeliani: i coloni ci lanciano pietre, rubano dalle nostre case, bruciano le nostre proprietà, bloccano le strade, ci spaventano, insultano e umiliano, intimidiscono i bambini». In un sondaggio delle Nazioni Unite realizzato a Hebron nel 2019, circa il 70% delle famiglie palestinesi interpellate ha dichiarato di aver subito violenze e attacchi dai coloni israeliani nei tre anni precedenti. Gli attacchi dei coloni godono della connivenza, se non della collaborazione, delle forze dell’ordine israeliane: secondo un’indagine dell’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din, solo il 3% delle denunce sporte da palestinesi per violenze commesse da cittadini israeliani in Cisgiordania dal 2005 al 2022 ha portato a condanne. Secondo i dati raccolti da un’altra associazione, B’Tselem, lo stesso tasso di incriminazione del 3% vale anche per i casi in cui soldati o civili israeliani arrivano ad uccidere civili palestinesi.
È proprio per proteggersi dagli attacchi dei coloni che Issa ha costruito una recinzione e fissato del filo spinato attorno a casa sua. Protezioni come quella costruita da Issa sono presenti su quasi tutte le abitazioni del centro storico di Hebron: barriere, fili spinati, o vere e proprie gabbie che rafforzano l’immagine di una città sotto assedio, in cui condurre un’esistenza normale è impossibile.
Una strategia di logoramento per provocare l’esodo
Issa spiega che la strategia israeliana per accaparrarsi sempre più terreni è proprio quella di rendere la vita sempre più difficile per i palestinesi: «Non ti sfrattano con la forza, ma ti rendono impossibile restare, togliendo tutti i servizi, azzerando ogni forma di vita sociale e culturale, creando un clima costante di insicurezza, violenza e pericolo». Un esodo forzato di massa, così è stato definito quello che sta succedendo a Hebron, causato dalle violenze e dalle restrizioni che la popolazione palestinese è costretta a subire ogni giorno. «Il loro obiettivo è la sostituzione etnica – dichiara Issa – farci lasciare le nostre case con qualsiasi mezzo per potersi impadronire della terra.»
È proprio quella di «far sentire la propria presenza» la missione assegnata ai soldati israeliani nei territori occupati: lo scopo è che i palestinesi si sentano costantemente osservati e controllati, finchè non diventa insopportabile per loro continuare a vivere a Hebron. Questo denunciano molte testimonianze raccolte da Breaking the Silence, una ONG composta da veterani israeliani che si oppongono all’occupazione. «Mi chiedi dove ho visto la violenza a Hebron? Ad ogni angolo. La missione a Hebron non è mantenere l’ordine; la missione è imporre la supremazia ebraica nella città. Noi soldati non siamo tra il martello e l’incudine, ma siamo il martello che i coloni scagliano contro i palestinesi» denuncia un’altra testimonianza anonima di un militare dell’esercito israeliano che ha servito a Hebron nel 2014.
Molte delle attività portate avanti da Youth Against Settlements, associazione apolitica e non-violenta fondata da Issa nel 2007, hanno come obiettivo quello di far sentire gli abitanti di Hebron più al sicuro, di denunciare le violenze dei militari e dei coloni, e di ristabilire una vita sociale e culturale nella città. Per aumentare la percezione di sicurezza, e documentare le violazioni dei diritti umani subite dai palestinesi, l’associazione fornisce telecamere e incoraggia gli abitanti di Hebron a documentare le incursioni dell’esercito o le violenze dei coloni. Per ripristinare la vita sociale e far sentire le persone legate alla loro comunità, Youth Against Settlements organizza invece diverse attività culturali: ha aperto un centro per le donne, un asilo nido e sta progettando di avviare un cinema nella zona. Questo, oltre a organizzare manifestazioni e incontri, nonché attività di sensibilizzazione e visite guidate a Hebron per far conoscere la realtà dell’occupazione.
Una delle attività più significative dell’associazione di Issa è la campagna Open Shuhada Street (Aprire Shuhada Street), che negli anni ha ottenuto supporto in tutto il mondo. Shuhada è una lunga strada che si snoda attraverso la città vecchia di Hebron, un tempo la principale via di comunicazione nonché il centro del mercato cittadino, e che nel 2000 è stata completamente chiusa dall’esercito israeliano. Quella che un tempo era la stazione dei bus è diventata una base militare, decine di negozi sono chiusi e molti edifici demoliti. Ormai, solo i coloni israeliani che risiedono negli insediamenti sorti intorno a Shuhada possono percorrere la strada.
E questa realtà insostenibile non fa che peggiorare: «Sempre più coloni si stanno insediando a Hebron, e nell’intera Cisgiordania, e stanno diventando sempre più violenti» riporta Issa. Questo, secondo l’attivista, perché il governo israeliano si sta spostando sempre più verso l’estrema destra. All’inizio dell’anno si è infatti insediato il governo più di destra della storia di Israele, costituito da un’alleanza tra Netahnyahu e partiti di estrema destra e ultra-ortodossi. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich sono essi stessi coloni, contrari all’esistenza di uno Stato palestinese e forti sostenitori di un’espansione degli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania. «Adesso che i loro leader sono parte del governo, i coloni si sentono legittimati nella loro violenza».
L’apartheid spinta dalla convinzione di adempiere al disegno di dio
I coloni che abitano negli insediamenti illegali in Cisgiordania sono la parte più nazionalista, ortodossa e fondamentalista della società civile israeliana. A guidarli nella decisione di vivere blindati in insediamenti militarizzati, la convinzione di adempiere a un dovere verso Dio e verso il popolo ebraico, di compiere una missione sacra. Negli insediamenti, sono i partiti ultra-conservatori e ultra-ortodossi di estrema destra a raccogliere la stragrande maggioranza del consenso.
Le ragioni religiose dietro all’occupazione israeliana della Palestina sono evidenti a Hebron, e pervadono la storia della città. Per i coloni, infatti, la loro presenza a Hebron è giustificata dal fatto che nella città si trova la Tomba dei Patriarchi (per i musulmani, la Moschea di Ibrahim) – il secondo luogo sacro per l’ebraismo, così come dal fatto che Hebron è la città dove Davide è stato incoronato re di Israele. La destra israeliana descrive l’occupazione della città, avvenuta nel 1967 durante la guerra dei Sei Giorni contro gli stati arabi, come un ritorno a casa, nel cuore di Eretz Israel, finalmente libero. L’anno dopo, nel 1968, gli Israeliani costruirono l’insediamento di Kiryat Arba, appena fuori Hebron, che sarebbe diventata una delle roccaforti della destra israeliana. È da questo insediamento che proveniva Baruch Goldstein, il colono che nel 1994 realizzò un attentato proprio nella Moschea di Ibrahim, uccidendo 29 musulmani in preghiera e ferendone quasi 300. La tomba di Goldstein, nell’insediamento di Kiryat Arba, è diventata luogo di pellegrinaggio per l’estrema destra israeliana. Sulla sua lapide, l’epitaffio definisce Baruch Goldstein martire con le mani pulite ed il cuore puro.
Nonostante i decenni di violenza, Issa è convinto che un giorno sarà possibile per palestinesi e israeliani convivere nella stessa terra: «Quando risponderanno di quello che hanno fatto e si libereranno di questa ideologia suprematista e di questo razzismo, potremo vivere insieme». Nel frattempo, nel suo attivismo Issa rimane fermamente ancorato alla non-violenza. «Resistenza non violenta significa agire secondo la propria morale e i propri principi, senza fare del male a nessun essere umano» dichiara l’attivista, convinto che la non-violenza sia l’arma più forte con cui i palestinesi possono neutralizzare la violenza israeliana, nonché l’unica strada percorribile. «Prima o poi dovremo convivere con gli israeliani: il sangue e la violenza aumentano il divario tra i nostri due popoli. Scegliendo la non violenza diminuiamo questo divario.»
La sua dottrina apertamente non violenta e pacifista, che ha portato Issa a ricevere riconoscimenti dall’ONU, non protegge tuttavia l’attivista dalla repressione israeliana. Issa è infatti stato arrestato e incarcerato numerose volte, l’ultima a novembre per aver ripreso un soldato che picchiava un attivista israeliano. «Come palestinese, non mi è permesso praticare resistenza non violenta» dice Issa, spiegando che nessun tipo di resistenza è consentito sotto l’occupazione militare: non è permesso protestare pacificamente, non è permesso incontrarsi in più di dieci persone, e basta un incontro per finire in prigione. «Per l’attivismo e la resistenza non violenta che porto avanti, sono stato arrestato, picchiato, imprigionato e condannato molte volte».
La resistenza contro l’occupazione continua
Rievocando i periodi trascorsi in carcere, Issa afferma: «Le prigioni israeliane, ad esempio il centro di detenzione di Gush Etzion, sono come Guantanamo: cercano in ogni modo di umiliarti, di distruggere la tua dignità, di demolire il tuo spirito». L’attivista racconta le terribili condizioni di detenzione: «Le celle non hanno finestre, è impossibile sapere se sia giorno o notte. Spesso vieni lasciato senza cibo e acqua per intere giornate, e quando portano il cibo sono gli avanzi lasciati dai soldati». A volte, Issa è stato messo in isolamento solitario, senza nessun contatto con l’esterno, altre volte è stato tenuto con altri detenuti in celle estremamente affollate e sporche. «Sei volte al giorno, i soldati passano per contarti: devi inginocchiarti, con le mani dietro la testa, a terra, senza guardarli negli occhi, anche nel cuore della notte – continua il suo racconto Issa – e vieni picchiato: ogni volta che vogliono, vieni picchiato.»
Alla domanda di dove trovi la forza per continuare nella sua lotta, Issa risponde: «Nel fatto che molte cose stanno cambiando, che stiamo avendo un impatto su come il mondo vede Israele e l’occupazione». Sempre più organizzazioni internazionali e sempre più giornali, dice Issa, stanno descrivendo la situazione nei territori occupati con il termine apartheid, e stanno aprendo gli occhi del mondo sulla realtà dell’occupazione. Molto recentemente, un rapporto di Amnesty International proprio su Hebron ha documentato l’uso di tecnologie di riconoscimento facciale ai posti di blocco della città, e denunciato il loro uso come mezzo per consolidare il controllo sui palestinesi e mantenere il sistema di apartheid. «L’occupazione, le violenze, le uccisioni, anche la sorveglianza di noi palestinesi, vanno avanti da decenni» dice Issa, «ma fino ad adesso, il mondo riteneva Israele una democrazia, che voleva la pace e rispettava i diritti umani: ora il mondo sta iniziando a vedere il vero volto dell’occupazione israeliana».
Sempre più persone sanno cosa succede in Palestina, eppure la strada da fare è ancora molta: «È solo l’inizio, l’inizio di un cambiamento, ma non è ancora abbastanza» dice Issa. In particolare, l’attivista ritiene che i governi occidentali dovrebbero fare di più per spingere Israele a porre fine all’occupazione. «L’occidente dovrebbe dichiarare Israele un regime di apartheid, per esempio, oppure smettere di vendere armi agli israeliani, imporre sanzioni economiche e limitare il commercio, per rendere l’occupazione più costosa per Israele.»
[di Elena Colonna]
Grazie per l’interessante articolo.
Due pesi e due misure.
Spero che coloro che pensano che l’aver molto sofferto migliori sempre le persone ora si ricredano: qual’e’ la differenza con il nazismo?
Le vittime, se messe nella condizione di essere carnefici, spesso non sono da meno dei loro aguzzini…come nei campi di concentramento, anche qui arbitrio, anche qui violenza fine a se stessa, anche qui umiliazione estrema dell’uomo, anche qui privazione dei bisogni fondamentali…il “giorno della memoria” ci ricorderemo anche di Hebron, e ci chiederemo quanti, usciti dai lager, sono poi confluiti in quell’esercito israeliano che ha espropriato terre e case in Palestina a chi vi viveva in pace (insieme ai molti ebrei gia’ presenti) da secoli su quella terra.
Bel articolo. Grazie.
Per il resto, gli esportatori di democrazia cosa dicono?
Stanno facendo in Palestina quello che vorrebbero fare in grande nel resto del mondo (e glielo stanno facendo fare). È una vergogna che tutto accada alla luce del sole e mai una parola venga spesa nei consessi internazionali per denunciare i soprusi di cui sono vittime i Palestinesi.
Grazie bel report .impressionante! Free Palestina