Il 9 giugno scorso, l’Alta Corte britannica ha reso noto di aver respinto perentoriamente il ricorso avanzato dall’editore australiano Julian Assange contro la sua estradizione negli USA dove rischia 175 anni di prigione per aver rivelato i crimini di guerra statunitensi in Afghanistan e in Iraq.
Non solo, ma, com’è noto, la settimana prima, la FBI aveva ripreso le sue indagini contro Assange, interrogando un suo ex collaboratore, Andrew O’Hagan. Nel 2014 questo “scrittore dietro le quinte” (ghostwriter) scozzese e confidente di Julian lo aveva aiutato a realizzare la sua autobiografia. Lo scorso primo giugno la FBI ha bussato alla sua porta per avere qualche indiscrezione in più su Julian. La risposta di O’Hagan ai poliziotti è stata esemplare: “Signori, incarceratemi se volete, ma non soddisferò la vostra richiesta cinica.” E la FBI è dovuta andar via a mani vuote. Tuttavia, il solo fatto che indaghi sembra indicare una volontà, da parte dell’amministrazione Biden, di incastrare Julian con ogni mezzo.
Tutto ciò ha indotto Vincenzo Vita a scrivere su il Manifesto del 10 giugno: “In questi giorni pare consumarsi un delitto perfetto, contro WikiLeaks e il suo fondatore; e contro l’autonomia e l’indipendenza dell’informazione… Siamo arrivati, probabilmente, al dunque.”
Eppure abbiamo scritto su queste pagine che molti indizi fanno invece pensare ad una trattativa in corso e che, pertanto, uno spiraglio ci sarebbe. Non solo, ma abbiamo ipotizzato che la lettera indirizzata da Julian al re Carlo III facesse parte di un siffatto negoziato. Ecco, dunque, l’elenco aggiornato dei nostri indizi.
- Nell’annunciare il rigetto del ricorso di Julian il 9 giugno scorso, la moglie, Stella Moris Assange, ha diramato un comunicato ufficiale in cui afferma: “Rimaniamo fiduciosi di spuntarla e che Julian non sarà estradato negli Stati Uniti.” Fiduciosa? Forse sa qualcosa?
- Ma già un mese prima, il 9 maggio, Caroline Kennedy, ambasciatrice USA in Australia e figlia di John F. Kennedy, aveva offerto una “colazione di lavoro” ad un gruppo di parlamentari australiani pro Assange – gesto inconcepibile senza un’autorizzazione dello State Department di Biden e quindi un segno almeno di “apertura al dialogo”.
- Alcuni giorni dopo, il primo ministro Albanese ha dichiarato in una intervista televisiva che bisognava trovare una soluzione per la liberazione di Assange e che Julian dovrebbe “fare la sua parte” (“be a part” nel senso di “be party to”). Cioè, tocca a Julian fare certe concessioni – probabilmente riguardanti ciò che egli s’impegna a fare o a non fare, una volta liberato. È infatti inconcepibile che USA/UK accettino che Assange, liberato, possa ripristinare WikiLeaks e tornare a screditarli come prima. Ma è ugualmente inconcepibile che Julian possa barattare il suo silenzio per la sua libertà. Da cui l’impasse e la necessità di un negoziato.
- Come abbiamo già ricordato, lo scorso 4 aprile, l’Alto Rappresentante del governo australiano ha fatto visita a Julian – il primo colloquio in assoluto con un funzionario di alto rango – e ha auspicato poi una serie di visite. Cioè, un negoziato per superare l’impasse?
- Il 22 maggio, l’avvocato londinese di Julian, Jennifer Robinson, ha dichiarato in una conferenza stampa a Canberra che a sua avviso un accordo era a portata di mano qualora ci fosse la volontà politica di concludere e una adeguata formula di patteggiamento.
- Il 28 maggio Stephen Kenny, l’avvocato di Assange in Australia, in un colloquio con Bruce Afran, avvocato costituzionalista statunitense, ha ipotizzato un “Patteggiamento Alford” come possibile via di uscita accettabile da Biden. E da Julian?
Sei indizi, dunque, che fanno pensare che ci siano effettivamente trattative in corso. Ma attenzione: non trattative in forma amichevole, bensì un violento corpo a corpo senza quartiere.
Da una parte, Julian invia al re una lettera di apparente sottomissione ma nella quale spara a zero sul Monarca. Per esempio, scrive che la prigione di Belmarsh è lontano “meno di una cavalcata di caccia alle volpi”: il richiamo è uno schiaffo in faccia a Carlo, noto appassionato di quello “sport dei nobili”, in quanto egli ha perso la sua lotta per conservarlo. (A furor del popolo, la foxhunt è stata bandita nel 2004 in quanto sport crudele). Nelle loro traduzioni della lettera di Julian al re, app come DeepL, Google Translate e Chat GPT non hanno saputo rendere la battuta sfottente “a foxhunt from” (come se Carlo misurasse le distanze in cavalcate alla caccia di volpi) e quindi hanno semplicemente omesso il riferimento, facendo perdere al lettore la stoccata di Julian. Stoccata, come tante altre nella lettera, voluta probabilmente per ribadire la sua volontà di dire le cose come stanno in faccia al potere.
A tutto ciò, la controparte britannica ha risposto a sua volta venerdì scorso, facendo decidere il ricorso di Julian ad un giudice monocratico arci-conservatore (quello che difese la deportazione dei migranti in Ruanda), il quale, in quattro e quattr’otto, ha rigettato l’appello senza spiegazione. Controstoccata, dunque, per dire a Julian: “Non puoi più contare su ricorsi legali, scendi a patti!”. Infatti, dopo l’udienza di martedì prossimo presso l’Alta Corte, Julian avrà esaurito tutte le sue possibilità di ricorso nel Regno Unito. Potrà naturalmente appellarsi alla Corte Europea dei Diritti Umani, ma il governo conservatore ha già preparato un’apposita legge per disconoscere la giurisdizione e quindi le sentenze di questa corte. E non esistono ulteriori possibilità. Tutto questo per mettere Julian sotto pressione e per indurlo a più miti consigli.
In conclusione, secondo l’ipotesi avanzata qui, le due parti hanno sparato le loro salve iniziali (la lettera, il rigetto) ed ora dovranno giungere in qualche maniera ad un accordo.
In questa ottica – che è pura speculazione, sia ben chiaro, per quanto confortata dai sei indizi appena elencati – la lettera di Julian al re Carlo assume una grande importanza: quella del guanto lanciato a terra. “Riconosco la tua sovranità su di me ma ti sfido ugualmente!”
Avevamo ipotizzato che il sarcasmo di Julian nella lettera potesse essere stato concordato con le autorità per riequilibrare le frasi di sottomissione alla Corona da lui pronunciate. Ma esiste anche la possibilità che la lettera non sia stata affatto concordata con le autorità, proprio perché non scritta da Julian e quindi non passata per la censura della prigione. Infatti, Julian avrebbe potuto semplicemente indicare a Stella durante un colloquio, a grandi linee, il suo pensiero, incaricando il suo ghostwriter, Andrew O’Hagan, di scrivere materialmente la missiva che Stella ha poi fatto uscire su declassifieduk a nome di Julian.
Un fatto è sicuro. La lettera esprime sottomissione ma anche sfida, un curioso miscuglio che un cortometraggio, realizzato da alcuni attivisti per Assange, coglie e rende quasi tangibile attraverso la voce dell’attore Mirko Revoyera e le immagini della videomaker Barbara BaLo, coordinati da Nicoletta Bernardi.
Il rigetto dell’appello di venerdì scorso fa dunque parte di una gara al rilancio da parte britannica? Oppure è semplicemente l’atto finale di una lunga tragedia già scritta? In un caso come nell’altro, l’estradizione di Julian rimane “pericolosamente vicina”, come scrive WikiLeaks, e le prese di posizione pubbliche di ognuno di noi – a favore della liberazione di Assange e per tutelare la nostra libertà di stampa e la nostra libertà di espressione – sono più che mai necessarie: ora o mai più!
Intanto, dita incrociate per il 22 giugno.
[di Patrick Boylan – docente di teoria e pratica della traduzione all’Università Roma Tre, autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo “Free Assange Italia”]