domenica 22 Dicembre 2024

Deep-sea mining: devastare gli oceani in nome della transizione

L’EASAC, il gruppo scientifico che riunisce le Accademie nazionali delle scienze degli Stati membri dell’UE, della Norvegia, della Svizzera e del Regno Unito, ha annunciato il proprio sostegno a una moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde. Il rapporto, pubblicato l’8 giugno dal Consiglio consultivo scientifico delle Accademie europee, contesta l’affermazione diffusa secondo cui i minerali dei fondali marini sarebbero necessari per la transizione verso tecnologie energetiche rinnovabili, sostenendo che i metalli necessari sono disponibili da altre fonti. Il documento sottolinea inoltre come l’estrazione mineraria causerebbe danni irreparabili agli ecosistemi marini e mette anche in dubbio la capacità dell’Autorità internazionale per i fondali marini (ISA) di valutare in modo completo e adeguato l’impatto ambientale dell’estrazione mineraria nelle acque internazionali.

L’oceano, la nuova frontiera dell’estrattivismo

La corsa ai minerali e alle terre rare non è appena iniziata, ma sta avendo un’accelerata in molti Paesi del mondo, Europa in primis. Con il Critical Raw Materials Act l’Unione Europea ha annunciato il suo piano per garantirsi un approvvigionamento sicuro e diversificato delle cosiddette materie prime critiche necessarie per transizione energetica, industria digitale e difesa. Per ora si parla solo di progetti di ricerca sulla terraferma. Ma non si esclude l’estrazione marina. Altrove, invece, gli occhi sono già puntati da tempo sui fondali oceanici. L’Italia, come tutta l’Europa, avrà un peso importante nella fase regolamentare.

Fra i 400 e i 5000 metri di profondità, nei substrati di roccia di montagne sottomarine e in aree segnate da attività vulcanica, si possono trovare le terre rare e altri materiali oggi considerati strategici. I noduli polimetallici sono ricchi di nickel, cobalto, rame e manganese. Le sorgenti idrotermali creano depositi di solfuri, che contengono metalli industrialmente ricercati come argento, oro, rame, manganese, cobalto e zinco. Sembra che la sola zona Clarion-Clipperton (tra i 4000 e i 6000 metri sotto l’Oceano Pacifico, tra il Messico e le Hawaii) contenga una quantità di manganese, nickel, cobalto, titanio e ittrio superiore all’intera riserva terrestre. Bracci metallici, sottomarini, veicoli telecomandati (ROV) che possono viaggiare a 10 km orari sotto la superficie: sono le nuove invenzioni che dovrebbero essere utilizzate per dragare i fondali marini e raccogliere queste materie rare. In nome della transizione energetica. Tirando su tutto: rocce, pesci, esseri viventi non ancora nemmeno scoperti e già condannati dalla ricerca nel mare profondo, il tutto per la sostenibilità ambientale.

Nel 1982 la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare stabilì che i fondali sono patrimonio dell’umanità e che in quanto tali vanno protetti: se sfruttati, deve essere a vantaggio di tutti. Proprio per regolare quest’ultima parte, quella relativa alla gestione delle risorse minerarie nelle acque internazionali (e, teoricamente, per proteggere gli habitat dei fondali profondi) è nata nel 1994 l’International Seabed Authority (ISA), l’Autorità internazionale dei fondali marini. Da quando è nata, l’ISA ha concesso 31 licenze per esplorazioni condotte da più di 20 Paesi, tra i quali Cina, Russia, Giappone, India, Francia, Germania, Sud Corea e Brasile. Trenta di esse sono ancora in attività.

Sono 36 i membri del consiglio dell’ISA sui 167 Paesi – più l’Unione Europea – che aderiscono all’organizzazione. L’Italia è tra essi. Una delle difficoltà fondamentali, sottolinea il segretario generale dell’organizzazione, il britannico Micheal Lodge, è la maniera in cui dividere i guadagni fra gli Stati. Lodge, nelle sue dichiarazioni, insiste sul fatto che le miniere in fondo all’oceano porteranno dei benefici condivisi con tutti gli Stati membri. Forse è solo per questo che non è ancora iniziata l’estrazione massiva sui fondali: gli Stati ancora non hanno deciso come spartirsi i guadagni tra di loro e con le imprese. Ma non tutti sono d’accordo con questo approccio: in molti stanno chiedendo di fermarsi. Oltre a gruppi ambientalisti, comunità indigene e gruppi di cittadini, anche 754 scienziati ed esperti di politiche marine provenienti da più di 44 Paesi hanno chiesto di stoppare la ricerca per l’estrazione mineraria in acque profonde, in un documento denominato Deep-Sea Mining Science Statement. Questo è stato accompagnato da varie petizioni, come quella di Greenpeace, che è stata firmata da più di 623mila persone sotto il titolo di Stop deep sea mining before it starts (letteralmente: “fermiamo l’attività mineraria nel mare profondo prima che cominci”).

Nel giugno 2022, alla Conferenza oceanica delle Nazioni Unite, in Portogallo, le isole sono diventati i primi Paesi a chiedere formalmente un’alleanza globale per opporsi all’estrazione mineraria in acque profonde. Altri Stati si sono schierati a favore come la Repubblica Dominicana e Vanuatu. A questi si sono associati altri Paesi come Cile, Costa Rica, Ecuador, Francia, Germania, Micronesia, Nuova Zelanda, Panama e a Spagna. Alcuni lo fanno per sensibilità ambientale. Altri, per interesse. Non è detto, infatti, che chi ha importanti miniere sulla terraferma veda di buon occhio una concorrenza sull’oceano. L’UNCLOS, da cui l’ISA deriva, con una norma pensata teoricamente per salvaguardare i Paesi estrattivi in via di sviluppo, prevede infatti che l’estrazione in mare non debba minacciare quella terrestre.

Ora anche gli scienziati europei si sono espressi. Le accademie scientifiche nazionali di tutta Europa sono state l’ultimo gruppo ad annunciare il loro sostegno alla moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde. Michael Norton, direttore per l’ambiente dell’EASAC, ha dichiarato che sostenere che l’estrazione in acque profonde sia pratica necessaria per la transizione energetica verde è fuorviante. Le conseguenze potrebbero essere catastrofiche per molte specie marine e per la biodiversità di quelle acque. Il rapporto dell’EASAC afferma inoltre che “non è ancora stato stabilito quale livello di danno ambientale possa essere considerato abbastanza grave o significativo da giustificare il rifiuto di un contratto”, il che mette in discussione i processi decisionali dell’ISA quando si tratta di rilasciare licenze minerarie. «Il dibattito sui danni gravi è appena iniziato e non è nemmeno lontanamente quantitativo – ha detto Norton – se l’ISA concede un contratto, allora giudica per definizione che non è grave».

«C’è anche il rischio di effetti secondari sostanziali dovuti alle grandi quantità di sedimenti rilasciati», ha detto in un comunicato Lise Øvreås, professore dell’Università di Bergen in Norvegia e membro dell’EASAC. «I fondali marini hanno richiesto migliaia di anni per formarsi, e il danno sarà irreparabile su tempi simili».

Le devastanti conseguenze sull’ambiente

A luglio, i membri dell’ISA si riuniranno presso la sede dell’agenzia a Kingston, in Giamaica, per discutere se l’estrazione in acque profonde debba essere autorizzata e quali regole debbano governare tale attività. Due anni fa, la Repubblica di Nauru, un’isola di 21,4 km quadrati per 11mila abitanti, ha invocato la “regola dei due anni”, una norma interna dell’ISA che prevede che, una volta presentato un piano di sfruttamento, debba arrivare un pronunciamento entro due anni. In sua assenza, il piano può essere avviato. Nauru, già sede dei campi di detenzione di immigrati per conto dell’Australia, sponsorizza la Nauru Ocean Resources Incorporated (NORI), una filiale della grande azienda canadese The Metals Company (TMC). TMC ha dichiarato di voler iniziare a estrarre minerali dalla Clarion-Clipperton Zone (CCZ) nel Pacifico già nel 2024, dopo aver richiesto una licenza di sfruttamento entro quest’anno. L’azienda canadese ha già effettuato un test di estrazione in acque profonde nella CCZ nel 2022. La Metals Company cerca i noduli polimetallici, detti anche noduli di manganese. Grosse pepite che contengono quattro metalli ormai fondamentali per il futuro digitale: cobalto, nichel, rame e manganese, in un unico minerale. Formati nel corso di milioni di anni, con la caduta dei metalli nell’acqua anche grazie alle colate laviche, giacciono ora sul fondale marino. La NORI ha già iniziato le operazioni di ricerca. In poco più di due giorni il trattore sottomarino telecomandato di fabbricazione svizzera (Allseas), attraverso un lungo cavo, ha arato 80 chilometri di fondale, raccogliendo circa 4500 tonnellate di noduli, ad un ritmo di 86,5 tonnellate all’ora. Raccogliere solamente i noduli è impossibile: il risultato è la distruzione del fondale.

Molti degli interessi commerciali si concentrano nelle pianure sottomarine della Clarion-Clipperton Fracture Zone: ben 17 dei 31 contratti di esplorazione interessano questa regione. Ma, anche secondo le parole di Matthew Gianni, co-fondatore e consigliere politico per la Deep Conservation Coalition (un gruppo di oltre 100 organizzazioni internazionali, tra cui Greenpeace, Oceana, SharkLife e Save Our Seas), ogni operazione mineraria con licenza di 30 anni comporterebbe lo strip mining, l’estrazione a fondale aperto, su un’area di 10-12mila chilometri quadrati. Una devastazione immensa, con conseguenze catastrofiche per la vita marina e per la biosfera oceanica, che nemmeno conosciamo così bene.

Per di più, lo scarico di sedimenti e acque reflue delle navi di raccolta potrebbe percorrere centinaia di chilometri, mettendo a rischio la sopravvivenza di pesci, specie migratorie come le balene e le tartarughe e infinite altre specie. Si parla di acque internazionali, lontane dalla giurisdizione di un singolo Paese. Oltre l’80% degli oceani del mondo rimane inesplorato e la maggior parte delle specie viventi che vi abitano rimangono un mistero. Difficile prevedere le conseguenze dell’estrazione mineraria in luoghi così sconosciuti, il cui equilibrio è però fondamentale per il benessere di tutto l’oceano, e quindi, dell’intero globo.

Numerose le aziende che spingono in questa direzione, alla ricerca di nuovi, ricchi introiti. Fra le altre Uk Seabed Resources, passata di recente dalle mani dell’americana Lockheed Martin; la norvegese Loke Marine Minerals, il Deme Group di Anversa, la Deep Ocean Resources Development Co. giapponese. Senza contare le numerose le compagnie cinesi e indiane. Ma il problema è ancora più grande. Ci sono Paesi che vogliono iniziare le estrazioni nelle proprie acque territoriali. La Norvegia vorrebbe iniziare un piano di esplorazione (in parte già cominciato) ed eventualmente di estrazione su una superficie di 329mila km quadrati, in un’area grande quasi quanto la Germania, Nei loro mari, sembra si trovino molte delle materie rare sempre più richieste. E, dato che si trovano nella loro area di giurisdizione, non dovranno nemmeno passare dall’approvazione dell’ISA. Altri stati, come il Giappone, vanno nella stessa direzione.

L’importanza (sottovalutata) dei fondali per gli ecosistemi

“Un’organizzazione oscura (la NORI) formata ai sensi del trattato sul diritto del mare delle Nazioni Unite, sta finalizzando i regolamenti per le attività minerarie in oltre il 40% della superficie del pianeta. L’approvazione di queste norme potrebbe arrivare a luglio. Dopo di che, si rischia l’inizio di una corsa per estrarre in mare. E una volta cominciata, ci saranno poche speranze di tenerla a freno”, ha scritto sul New York Times a metà marzo Diva Amon, biologa marina e direttrice di SpeSeas, gruppo che si batte per la conservazione degli oceani. Le profondità marine svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del clima, così come nelle attività di pesca su cui fanno affidamento miliardi di persone. I fondali marini sono quindi fondamentali per la nostra sopravvivenza. Questo ecosistema, tra i più importanti del pianeta, è già in difficoltà, con il 10-15% delle specie marine già a rischio estinzione. Il deep-mining potrebbe dargli in colpo di grazia.

«Il dragaggio del fondale ha un impatto ambientale devastante non solo sugli organismi che vivono su quell’area, ma anche nei dintorni, per via del sollevamento di sedimenti che coprono e uccidono altri organismi. Così mentre i vantaggi sono solo dei governi che possiedono la tecnologia, i danni ambientali ricadono su tutti noi», sottolinea R. Danovaro, uno dei maggior esperto al mondo per la ricerca su mari e oceani.

Il 31 marzo l’ONU ha chiuso 14 giorni di incontri sull’argomento, senza tuttavia trovare un accordo sulla regolamentazione dell’estrazione di minerali dai fondali marini. Il processo che – se nulla cambia – porterà l’ISA all’approvazione delle richieste di permesso per lo sfruttamento dei fondali non si è tuttavia fermato. Molti Stati e aziende spingono per approvare il deep-sea mining: troppi pochi si stanno opponendo, perché gli interessi sono enormi. Le conseguenze ambientali saranno devastanti. La decisione se approvare o meno l’estrazione nelle acque internazionali, richiesta dall’azienda canadese TMC tramite l’isola di Nauru, sarà un precedente storico. A luglio si giocherà una partita importante. Tuttavia, è probabile che la possibilità di avere una buona squadra di Stati che giochino la partita non sia così reale.

[di Monica Cillerai]

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5 Commenti

  1. Buggerru( treno in parte miniera) ed ingurtosu…danni ambientali ancora visibili nonostante piani di recupero ambientale attraverso piantumazione di eucalipti e altre specie arboree miglioratrici di aria e suolo.
    Lungo la costa verde è impressionante osservare laghi e torrenti in prossimità del mare di colori rossastri con cartelli che indicano la tossicità delle acque e dell’aria circostante. Esistono diverse ordinanze che avvertono gli avventori sulla quantità massima di ore/gg trascorribili in quelle zone per non incorrere in problemi di salute.
    E ora cosa vogliono fare i governi di mezzo mondo in nome di una transizione ecologica che di ecologico ha soltanto il nome? (Sono davvero poche le realtà che veramente si stanno impegnando in merito)
    Distruggere un intero ecosistema che nemmeno conosciamo in nome di profitti che porteranno sicuramente danni e distruzione.L’ ipotesi di impegnarsi in un serio recupero dei materiali minerali quali ad esempio rame e nichel pare distantissima. Credo si tratti di una questione di volontà ed è avvilente come la storia continui a ripetersi mentre il popolo soccombe come spettatore inerme.

  2. Nuove materie prime per la transizione green all’elettrico, pannelli solari di cui non ci si pone il problema dello smaltimento a fine carriera, pale eoliche nel bel mare della Sardegna…e intanto gli imbrattatori di opere d’arte si fanno paladini del pianeta…Come al solito “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”…

  3. La Svizzera, notoriamente uno Stato senza sbocchi sul mare e con acque lacustri non molto profonde possiede il know how per dragare gli abissi marini… Mi chiedo: perché loro sì e noi, con 8000 km di coste, no? Sarebbe bene che ci riapropriassimo di questa tecnologia (vantaggio tecnico-scientifico e quindi economico nazionale) invece di costruire per lo più panfili per gli oligarchi e velocissime barche d’altura. Bloccare la ricerca marina e l’anelito umano ad esplorare, raggiungere nuovi orizzonti ed aumentare le proprie conoscenze per una ipotetica salvaguardia della biosfera non è possibile e, di fatto, controproducente. L’ uso delle tecnologie avanzate e lo “sfruttamento” a scopo prima strategico e poi di lucro dei fondali marini devono invece forzatamente essere regolamentati a livello politico ma per fare ciò ci vogliono persone con solide preparazioni tecnico-scientifiche, oneste ed indipendenti (direi con elevato stato di Coscienza). Non mi pare che tra i nostri rappresentanti a Bruxelles, per non parlare di coloro adagiati sugli scranni nazionali ci siano personalità con codesti standard…

  4. Grazie per l’articolo, ben fatto e chiaro. In nome del dio denaro non si guarda in faccia a nessuno… Però prima o dopo arriverà il conto da pagare. Alla faccia della transizione ecologica, qua si guarda solo al guadagno senza remore

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