giovedì 21 Novembre 2024

Il vero potere è l’ascolto

Tre anni dopo, non è poco. A pensarci bene, quello che è stato impedito nel tempo del lockdown è stato l’ascolto. Tenuti lontani l’uno dall’altro, allenati alla paura, al sospetto, minacciati quotidianamente dal rischio di contagi, presi come soggetti deboli, potenzialmente inadempienti, addestrati al controllo reciproco, alla sfiducia negli altri ci è stata cucita addosso la socialità della rinuncia.

Avevamo sognato di ballare, di pescare, di prendere un qualsiasi aereo, di valicare montagne con la bici, di sorseggiare tequila in Guatemala, di ammirare l’aurora boreale, di farci incantare da qualche mercato in Marocco, di urlare nello stadio, di abbracciare, di condividere a casa una cena, di incazzarci a muso duro, di piangere a un funerale, di fissare l’oceano nel bar in cui avevo conosciuto lei, di farmi largo tra la folla, di entrare in quel ristorante dove grigliano in continuazione, di infilarmi nella petanque di quel paese in Francia dove sono i giovani a giocare a bocce, di venirti a trovare.

ho sofferto a non poterti più incontrare, e poi scambiarsi convenevoli on line su quelle cazzo di applicazioni che riducono il remoto. Indigestione da webcam, moltiplicazioni di contatti, in realtà generatori di illusioni, di castrazioni, roba che mi fa venire in mente i visionari di fine Ottocento che parlavano con i morti.

Ma non dire sciocchezze, è dallo sbarco sulla Luna che ridurre le distanze con le telecamere ha introdotto equivalenze eccitanti, simulazioni fantascientifiche.

‘Ridurre il remoto’, sentivo dire da chi si vantava di trovare qualcosa di positivo nel guardarsi come piloti di navicelle spaziali che salutano il campo base. La realtà liofilizzata come il caffè è stata la seconda trovata. Avanti con l’illusione che ci sono equivalenti ai cinque sensi, che è così bello Cloud, lassù dove qualche inventore di tecnologie del dopodomani ha castrato le aspirazioni dell’oggi, dove gli armigeri che usano gli altri come pedine, come soldatini, mentre insanguinano il mondo, si inventano nemici dappertutto.

Appunto, inventarsi nemici, una bella attività che la pandemia ha facilitato, ha prodotto come premio del controllo sociale. E giù a insultarsi sui social come quegli scolaretti stronzi che fanno i primi della classe e poi si menano nei corridoi. E avanti col razzismo, un razzismo di nuova maniera, non più indirizzato ai colori della pelle ma a quelli senza vaccino. E qualcun altro pronto a vedere complotti anche nello sguardo del vicino di casa alla riunione di condominio.

Beh, poi, quando finalmente abbiamo ripreso a guidare le auto e le moto, dopo quei mesi che le strade sembravano vuote come a Ferragosto ma piene di autoambulanze, beh allora abbiamo potuto ricominciare a fare gli impazienti, gli intolleranti.

Intolleranza, altra parola magica, altro che realtà aumentata. Più la vita si riempie di alternative virtuali, più diventa invivibile la quotidianità. E allora, finita l’epoca della lontananza è cominciata quella del rancore, degli insulti verbali. Abbiamo perso la capacità di relazionarci, di ascoltarci, di stare davvero vicini.

Da allora siamo stati minati in quella capacità umana che ha a che fare con il divino e con la libertà, con quella disponibilità che segna, che marca, che reclama l’umano: l’ascoltarsi appunto, una attività che richiede vicinanza, introspezione, solidarietà, leggerezza e profondità, reciprocità.

Ascoltiamoli invece i poveri e i malati, applichiamo il Discorso della montagna alla condizione umana. Quella ad esempio del fango in strada che si è seccato e che riempie di polvere i paesi e le città disastrate in questi giorni.

Una pandemia come scuola di disumanizzazione?

Forse, ma il male non ha prevalso. E tutti si sono messi a spalare, a piangere e a cantare. L’ascolto continua.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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