martedì 24 Dicembre 2024

Covid, la ricerca conferma: il tasso di mortalità è dipeso anche dallo smog

La qualità dell’aria incide sull’aumento di rischio d’infezione e di decesso per Covid-19. La distribuzione geografica del virus mostra incidenza e letalità più alte nelle aree del nord Italia, che hanno anche livelli più elevati di inquinamento atmosferico di lungo periodo. Sono questi i risultati di due studi pubblicati su PubMed a maggio dal progetto EpiCovAir su inquinamento atmosferico e Covid-19. Il lavoro è promosso dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (ISPRA-SNPA). Attraverso analisi geografiche, demografiche, socio-economiche e sanitarie è stato provato un aumento di infezioni e decessi da Covid-19 correlati all’inquinamento dell’aria. Nel caso del biossido di azoto (NO2) si arriva quasi all’uno percento. Disuguaglianze sociali, povertà ed efficienza delle strutture ospedaliere hanno avuto un ruolo centrale durante la pandemia. Una soluzione sarebbe imparare dagli errori del passato per promuovere iniziative che mirino a migliorare il sistema sanitario nazionale, tutelare l’ambiente per evitare la zoonosi e a ridurre le disuguaglianze economico-sociali.

È stato provato un legame tra incidenza di infezioni e mortalità da Sars-CoV-2 ed esposizione di lungo periodo ad alcuni fra i principali inquinanti atmosferici nel nostro Paese, quali il biossido di azoto (NO2) e il particolato atmosferico (PM2.5 e PM10). È ciò che concludono due studi pubblicati su PubMed grazie al lavoro di EpiCovAir, un progetto epidemiologico nazionale di ricerca su Covid-19 e inquinamento. Il programma è promosso dall’ISS e dall’ ISPRA, in collaborazione con la Rete Italiana Ambiente e Salute (RIAS). L’indagine ha riguardato circa 4 milioni di casi di contagio e 125 mila decessi registrati dal Sistema Nazionale di Sorveglianza Integrata durante le prime tre ondate epidemiche (da febbraio 2020 a giugno 2021). Le analisi effettuate, spiegano gli autori, tengono conto di numerose variabili geografiche, demografiche, socio-economiche, sanitarie e della mobilità della popolazione durante la pandemia. È emerso che incidenza e letalità più alte sono state registrate nelle aree del nord Italia, caratterizzate infatti da livelli più elevati di inquinamento atmosferico di lungo periodo. In Italia l’incidenza di nuovi casi cresce significativamente dello 0,9%, dello 0,3% e dello 0,3% per ogni incremento di 1 microgrammo per metro cubo (μg/m3) nei livelli di esposizione di lungo periodo a biossido di azoto, PM2.5 e PM10, rispettivamente. Le associazioni sono ancora più forti tra i soggetti anziani. Lo stesso vale per i tassi di letalità per COVID-19 che aumentano dello 0,6%, dello 0,7% e dello 0,3% ad ogni innalzamento di 1 μg/m3 nell’esposizione cronica rispettivamente agli stessi inquinanti.

Questi studi sono la conferma di ciò che era già stato ipotizzato precedentemente da altri gruppi di lavoro, ovvero che la Covid-19 è una sindemia: l’incidenza del virus è direttamente collegata a questioni sociali “a priori”. Il 5 marzo 2021, infatti, 9 scienziati Italiani concludevano su Nature che nel centro-sud non è avvenuto un sostanziale aumento di decessi, al contrario di alcune regioni del Nord. È stata notata una forte correlazione tra eccesso di morti e alcuni fattori a priori quali “inquinamento atmosferico, mobilità delle persone, temperatura invernale, concentrazione abitativa, densità sanitaria, dimensione della popolazione ed età. Un altro studio pubblicato a settembre 2020 sul British Medical Journal mostrava che nelle regioni con maggiore inquinamento il virus sembra essere stato almeno 7 volte più contagioso. È anche per questi motivi che Reuters e The Lancet hanno riportato che “il Covid-19 è una sindemia”.

Oltre alle vittime e alla necessità di analizzare i protocolli di cura, purtroppo il virus ha portato una quantità di danni economici e sociali enormi, a volte quasi indecifrabili. Ma possiamo imparare dagli errori del passato, o meglio, possono farlo soprattutto coloro che hanno indirizzato le decisioni politiche e sanitarie italiane. Le istituzioni globali non hanno dubbi: il prossimo futuro sarà costellato da pandemie e, alla luce delle ricerche scientifiche, tutto ruota sulla capacità che gli organismi internazionali e nazionali avranno nell’agire rapidamente su scala globale. Purtroppo, sembra esserci la tendenza a preferire questioni che fanno più gola alla politica piuttosto che quelle effettivamente migliori per i cittadini. Piuttosto che concentrarsi maggiormente sulla ricerca per aumentare la sicurezza dei biolaboratori, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta lavorando ad un nuovo trattato sulle pandemie che le conferirebbe maggiori poteri decisionali. Come analizzato in un articolo del nostro Monthly Report, gli effetti della pandemia hanno anche mostrato che la vera emergenza riguarda l’ambiente, gli ospedali e la sanità. Tra il 2010 e il 2019 sono stati effettuati ampi tagli di spesa nel settore della salute, il 60% dei patogeni noti alla medicina moderna ha origine animale e la loro diffusione è strettamente connessa alle pressioni umane sulla natura. L’Italia dovrebbe quindi migliorare il suo servizio sanitario e avere maggiore attenzione per i rischi derivati dalla distruzione dell’ambiente.

[di Roberto Demaio]

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1 commento

  1. Sono personalmente scettico sul fatto che l’umanita’ possa imparare dagli errori del passato. La terapia contro il SARS-CoV-2 era già nota da una quindicina d’anni, dai dati del Sars-CoV1 del 2003, virus ben più letale (10% contro uno striminzito 0,3-0,4%). Il fatto è che il presente attuale viene continuamente manipolato con notizie “verosimili” da pochi individui che poco hanno a che fare con il resto dell’ Umanità.

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