Se è vero che la storia dell’umanità si evolve in un moto inesorabile ma ignoto, il Donbass sembra essere condannato a un ciclo eterno di discese agli inferi e resurrezioni. In una narrazione controversa e sempre più difficile da analizzare, il testimone più affidabile della storia di questa regione martoriata risulta essere proprio se stessa. Gli scarti di terra delle miniere, accumulati e trasformati in imponenti montagne rosse, affiancano strade, case e costruzioni che, nel loro sordo silenzio, sembrano voler scagliare accuse: il Donbass ha molto da raccontare su se stesso, a chi è disposto a scrutare i suoi silenzi.
Della sua origine non ne fa segreto: fiorito nella culla di acciaio dell’Unione Sovietica, questo bacino carbonifero ha vissuto nel secolo scorso la sua massima prosperità grazie all’estrazione delle materie prime. La ricchezza conseguita dalle scelte politiche del governo sovietico sembra essere l’unica dote rimasta al Donbass: «Nel nostro territorio i palazzi, le infrastrutture e le strade più moderne risalgono al ‘91» ci racconta Tamara Ivanovna, ex direttrice della “Casa della Cultura” di Frunze, oggi addetta alla Cultura e allo Sport del sindacato dei lavoratori della nuova Repubblica di Lugansk. In effetti, se da un lato il panorama devastato presenta le chiare conseguenze dei bombardamenti, che imperviano dal 2014, dall’altro testimonia un’incuria lunga ben 30 anni. La guerra non si è abbattuta su grattacieli e autostrade a sei corsie, bensì su comignoli battenti stella rossa, casermoni operai, tubi del gas a vista che si inerpicano tra timidi approcci alla modernità.
La prosperità è quindi solo un lontano ricordo per gli abitanti di questo territorio, i quali, nonostante le potenzialità economiche e l’ufficiale appartenenza territoriale all’Ucraina, hanno visto il loro tenore di vita progressivamente deteriorarsi. In questa lenta discesa all’Ade, il malcontento non poteva che crescere. «La nostra vita è cambiata radicalmente dal 2014, quando dopo piazza Maidan, nonostante noi continuassimo a svolgere i nostri compiti professionali, le istituzioni hanno cominciato a non ricevere più finanziamenti – continua il racconto commosso di Tamara – così fino ad arrivare al referendum per l’autonomia: ci tagliarono tutti gli stipendi e ci minacciarono per farci lasciare i nostri posti di lavoro. Dopo le prime morti, sono stata costretta a lasciare il paese dove vivevo e fuggire a Lugansk insieme alla mia famiglia, dove abbiamo vissuto per mesi come rifugiati».
Il resto degli eventi è ormai storia: nella piazza della città, a testimone dei primi caduti durante le rivolte del 2014, un centinaio di volti di uomini e donne ricordano ai passanti quanto sangue sia costata questa libertà. Un memento a dir poco ottimista, se si pensa che ad oggi si contano più di 14.000 morti tra i civili del Donbass.
Questo è l’ossimoro in cui vive Lugansk: una città martoriata da nove anni di persecuzioni e bombardamenti (che ad oggi ancora non sembrano voler cessare), si sdoppia tra il mondo dei posti di blocco e delle camionette militari e quello della tenacia, della voglia di rinascere. A tutti i costi. Il 12 giugno 2023 è la prima ufficiale “Giornata della Russia” per le due neonate Repubbliche. Le manifestazioni e le feste in piazza sono vietate per motivi di sicurezza, ma a Lugansk si festeggia comunque, si festeggia lavorando: in ogni angolo della città brulicano operai, strade in costruzione e cantieri. Le bandiere russe e i manifesti di propaganda per le prossime elezioni politiche avvolgono la dualità dell’esistenza del popolo di Lugansk, che celebra il suo passato oscuro insieme alla speranza di un futuro migliore. «È stato creato un gemellaggio per ogni città del Donbass con una città russa, in modo tale da sostenere i progetti di ricostruzione – afferma con un certo orgoglio Oleg Koval’, Vicepresidente della Repubblica Popolare di Lugansk – sappiamo che c’è un disegno di legge al vaglio del Parlamento russo per istituire qui una zona franca. Speriamo che si creino le condizioni per cui la nostra regione possa avere opportunità di ripristino del nostro sviluppo economico».
La rinascita non passa solo per le mani della politica: nel progetto di risalita non manca infatti la presenza dei più piccoli. Il Ministero della Pubblica Istruzione di Lugansk, con il sostegno di associazioni di volontariato italiane, ha indetto un concorso di disegni: a quegli stessi bambini che da anni ormai non vedono più un banco di scuola, costretti dagli allarme bomba a un costante coprifuoco, è stato chiesto di rappresentare la propria realtà. Con stupore l’evento è stato tappezzato di cieli azzurri, fiori, famiglie che tenendosi per mano guardano a un orizzonte dai colori caldi e accoglienti: non c’è spazio per panorami oscurati dalla guerra nella fantasia di chi con il suono dei missili ci è praticamente nato. Nonostante le ambivalenze di una guerra ancora senza battute d’arresto, questa città si sente un’audace Proserpina, pronta a risollevarsi dalle sue ceneri: Lugansk non conoscerà di certo il suo futuro, ma sembra conoscere bene quale è il suo destino.
[di Rossella Maraffino]
I cittadini di Lugansk hanno tanto sofferto e la sofferenza continua. Ma da noi si parla solo delle bombe russe non di quelle ucraine.