Riciclo, insieme a sostenibilità, sono le due parole più usate nel sistema moda (e non solo) negli ultimi anni. Questa pratica, sulla quale moltissime aziende sono pronte a investire ingenti somme, sembra essere la soluzione a decenni di sovrapproduzione che hanno intasato il pianeta, tanto da affiancare alle dune del deserto montagne di abiti (visibili anche dal satellite). Nell’ottica della circolarità, finalmente le aziende hanno preso coscienza del fatto che non si possono solo limitare a mettere in circolo capi, ma sono tenute a prendersi, almeno in parte, la responsabilità di cosa accadrà dopo. Ricicliamo, dunque. Sembra semplice e immediato, eppure, esistono dei limiti alla riciclabilità. Dalla macchinosa gestione della raccolta e smistamento, fino all’attuale impossibilità di riciclare fibre miste. Ma indubbiamente uno dei fattori più complicati da gestire è quello riguardante le sostanze chimiche presenti nei tessuti.
Ebbene sì, quando si parla di riciclo meccanico, un processo realizzato con l’uso di macchinari che pettinano il capo con denti metallici fino a distruggere la struttura tessile per ottenere fibre sciolte da impiegare per nuovi filati, tutto quello che ha fatto parte di quel capo, rimane imprigionato tra le sue fibre. Sostanze chimiche comprese, che sono trasferite automaticamente al materiale riciclato. Per i capi che seguono le normative REACH (il regolamento sui rischi legati alle sostanze chimiche) nessun problema, ma per tutti quei capi che provengono da altre parti del mondo (ovvero una stragrande maggioranza) dove i controlli non sono così stretti (o inesistenti) o quelli prodotti in tempi non sospetti dove le norme non erano ancora contemplate? Pare che la chimica rimanga in circolo, creando dei problemi…
Sono anni che si conducono studi sui materiali riciclati, cercando di scoprire cosa succede alle fibre una volta trattate; l’ultimo è del Ministero della Salute olandese – Textile recycling in the Netherlands – Considerations for ensuring chemical product safety, che cerca di fare luce su questi aspetti affinché non ci siano ostacoli all’adozione di un’economia completamente circolare (prevista, secondo il governo locale, entro il 2050).
Quando si parla di riciclo tessile si apre un mondo: non sono solo abiti dismessi a entrare in questa catena, ma svariate categorie di tessuti, compresi quelli per arredamento, materiali per abbigliamento tecnico o abiti da lavoro con esigenze specifiche. Un grande mix di fibre, dal poliestere al cotone alla lana, e un altrettanto consistente mix di sostanze chimiche usate per conferire ai capi determinate caratteristiche (ne abbiamo parlato anche qui – la chimica nella moda esiste ed è fondamentale, basta usare quella consentita in modo adeguato e conforme perché non arrechi danni alle persone e all’ambiente).
Durante test e studi sono state rilevate sostanze chimiche soprattutto nel poliestere, ma, nonostante le alte concentrazioni in alcuni casi, rimanevano entro il limite della legge. Nei capi in lana, invece, a essere presenti in quantità maggiori al consentito sono i NPEO, il Nonifenolo etossilato, facente parte della famiglia degli APEOS. Gli Alchifenoli etossilati, nonostante il nome altisonante, sono banalmente tensioattivi con grandi capacità di detergere e ammorbidire, che si trovano spesso nei detersivi, e che possono funzionare anche da interferenti endocrini. L’uso di queste sostanze, infatti, può creare notevoli pericoli per l’ambiente e la fauna, avvelenando acqua ed animali. In un dossier presentato dalla Svezia qualche anno fa, è stata notata un’alterazione sessuale di alcune specie di pesci, i quali si femminizzavano, andando a scompensare così l’ecosistema marino.
A seguito di queste indagini svolte nel corso degli anni, sono state introdotte nuove restrizioni nel regolamento REACH anche per quanto riguarda i tessili riciclati, dove è stato fissato un limite per i prodotti riciclati contenti APEOS (100 parti per milione). La cosa interessante da notare è che, quando i capi sono lavati in casa, la percentuale di queste sostanze aumenta perché i tensioattivi sono contenuti nei detergenti (con i quali si fano le lavatrici, ad esempio). Quando parliamo di riciclo di capi post-consumo, questa diventa una limitazione reale, nonostante non ci siano prove scientifiche che, superate le 100 parti per milione, gli APEOS presenti possano arrecare danni alla salute delle persone che indossano maglie o giacche realizzate con una percentuale di fibre riciclate.
A questo punto la domanda sorge spontanea: come si può voler favorire il riciclo, se ci si deve attendere a degli standard che sono in pratica uguali a quelli previsti per la produzione di materiali “nuovi”?
La storia del riciclo, soprattutto in distretti come quello pratese, va avanti da circa 200 anni. È una pratica consolidata che è andata migliorando nel tempo, grazie ad una ricerca costante di nuove soluzioni e tecnologie. Ma con queste limitazioni sta avendo una preoccupante battuta d’arresto. Più che una norma arbitraria, forse servirebbero delle valutazioni specifiche caso per caso, data anche l’eterogeneità dei materiali che vengono di volta in volta riciclati. Anche perché, cosa danneggia di più il Pianeta: impedire l’uso di un tessuto riciclato senza prove scientifiche che possa fare male o limitare il riciclo facendo finire ulteriori capi nelle (già strabordanti) discariche?
[di Marina Savarese]