L’olio attrae potenti valori simbolici. Uno fra i primi è legato al concetto di stasi: il mare è calmo come l’olio, un altro al concetto di cura, di salute: l’olio sulle ferite, ma la storia antica ha conosciuto l’olio bollente gettato sui nemici o fatto da loro ingurgitare. Quindi, ancora una volta: la pace e la guerra.
C’è poi un’idea di forza, di calma potente che permea l’immaginario intorno all’olivo: la sacralità, la durata nel tempo che la secolare età raggiungibile dalla pianta suggerisce. L’olio e l’olivo contengono dunque insieme una forte connotazione di persistenza e potere e un legame con le forze arcane, con un senso che viene da lontano.
Luigi Pirandello, in una celebre novella, La giara (1909), ha drammatizzato la inconciliabilità fra l’esibizione tracotante del potere di Don Lollò e la saggezza magica e povera di Zi’ Dima. La giara nuova da olio, di Don Lollò, “badessa” di tutte le altre, era stata trovata rotta e Zi’ Dima venne chiamato a ripararla per mezzo di un mastice miracoloso, ma finì “imprigionato nella giara da lui stesso sanata”, senza la possibilità di venirne fuori a meno di non romperla nuovamente.
L’icona del filosofo cinico Diogene di Sìnope (IV sec.a.C.), schivo e mendicante, irriverente spregiatore delle convenzioni, leggendario e saggio abitatore di una botte, viene rinnovata da Pirandello con quella di Zi’ Dima, sapiente e grottesco artigiano, umile stregone che ripara i guasti e rimette in ordine il mondo con conoscenze semplici e ancestrali. Egli entra in lite con Don Lollò, padrone del podere, che assume invece il ruolo di avvocato da strapazzo, infuriato nel tentare di risolvere la contraddizione fra il merito da riconoscere al conciabrocche che ha svolto il suo compito e la inevitabile decisione di rompere la giara per farlo uscire.
Nel racconto di Pirandello misuriamo la incompatibilità di un sapere artigianale e tradizionale, tramandato da “un vecchio sbilenco”, oggetto di diffidenza ma anche di ammirazione, e l’ostentazione di un potere che sembra infrangere le tradizioni, facendo costruire una giara di grandezza esagerata, da mostrare sì con orgoglio, ma troppo stretta nell’imboccatura.
Don Lollò sferrerà alla fine un poderoso calcio di rabbia alla giara che andrà a sfasciarsi contro un albero, offrendo in tal modo uno strumento – artistico, cognitivo e perché no anche politico – per risolvere il conflitto fra il rispetto dovuto alla sapienza dei poveri e quello preteso dal potere costituito.
Nel 1954 Giorgio Pàstina realizzò, insieme con Mario Soldati, Luigi Zampa e Aldo Fabrizi un film ad episodi – Questa è la vita – in cui venivano trasposte alcune novelle pirandelliane (celebre il Totò de La patente). Nell’episodio relativo a La giara è interessante osservare in apertura un furioso temporale che tormenta gli olivi carichi. Questo fatto è assente nel racconto di Pirandello ma in compenso il padrone del podere viene descritto dallo scrittore come un uomo sempre pronto alla collera, alla lite, che “bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata”.
Ecco l’origine dell’immagine di quel temporale: la prepotenza del padrone si trasfigura in una forza naturale che minaccia il raccolto.
Nell’episodio del film sarà invece poi la calma a vincere la contesa, una calma arcaica, popolaresca, inattaccabile, quella che ha superato la tempesta, quella stessa dell’olivo florido sul quale Ulisse edificò, secondo Omero, il talamo nuziale, la calma della divina alleanza rinnovata, invocata da Dante nel Purgatorio. Il rispetto dovuto a ciò che è sacro, come l’olivo al cospetto di Atena, dèa appunto della guerra ma anche della magnificenza, di una sapienza fuori dal tempo e dalle contese transitorie di chi usa in modo meschino e aggressivo il proprio potere.
[di Gianpaolo Caprettini]