Chi decide di patteggiare una pena per associazione mafiosa può continuare indisturbato a fare impresa, a ricevere finanziamenti pubblici e a contrattare con lo Stato, aggirando tutta la normativa di prevenzione antimafia: è l’ultimo effetto prodotto dalla riforma della giustizia targata Marta Cartabia, partorita nell’era del governo di Mario Draghi, ufficialmente attestato da una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia.
Nello specifico, la decisione del Gga – che svolge le medesime funzioni del Consiglio di Stato, ma con la sola competenza sull’isola – riguarda il caso di un imprenditore di Partinico, inserito nel commercio di macchine agricole e industriali, che tre anni fa ha patteggiato una pena di un anno e dieci mesi di carcere per 416-bis con il riconoscimento della sospensione condizionale. Tale condanna aveva comportato l’applicazione di un’interdittiva antimafia da parte della Prefettura di Palermo, con l’automatico divieto per il soggetto di esercitare la professione e quindi partecipare alle gare di appalto. Ma ora i giudici amministrativi siciliani – accogliendo il ricorso del legale dell’uomo e sconfessando una precedente pronuncia del Tar – hanno ribaltato tutto, sospendendo in via cautelare l’interdittiva. Il motivo è da ricondurre al dettato della riforma Cartabia, che ha modificato l’art. 445 del codice di procedura penale in questo modo: “Non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano il patteggiamento a una sentenza di condanna”. Limitando, così, l’efficacia extrapenale della sentenza di patteggiamento, che non può dunque valere a fini di prova “nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”.
A tal proposito, il Collegio di secondo grado ha citato a sostegno una “costante giurisprudenza”, evidenziando che anche le norme del codice antimafia sono “diverse da quelle penali”, dal momento che disciplinano “istituti di natura esclusivamente preventiva e non punitiva”. Dunque, “la sentenza di patteggiamento, relativa anche a uno dei reati ritenuti ostativi ai sensi del codice antimafia (come il 416-bis c.p.), non può (più) ritenersi equiparata alla sentenza di condanna”. Per il Consiglio, sussistono entrambi i requisiti per l’accoglimento del ricorso: il fumus boni iuris, cioè l’apparente fondatezza della domanda, e il periculum in mora, ovvero il rischio di effetti economici negativi per l’attività.
Si tratta solo dell’ultima macroscopica criticità frutto di una riforma che, nel corso degli anni, ne ha fatte emergere innumerevoli. In primis, con l’introduzione nell’ordinamento della “tagliola” dell’improcedibilità per i processi in appello (dal 2025, potranno durare di base fino a due anni, con una proroga di un anno al massimo) e in Cassazione (un anno di base, con una proroga di sei mesi), che manderà al macero tutti quelli che sforino le soglie temporali previste; poi con la non perseguibilità di gravi reati – tra cui il sequestro di persona, le lesioni personali dolose, la violenza sessuale e lo stalking – in mancanza di querela da parte della vittima, anche quando sono seguiti da una minaccia messa in atto con l’obiettivo di persuaderla a non querelare l’autore della condotta; infine con il bavaglio al diritto di cronaca mascherato da azione improntata al garantismo e alla difesa della “presunzione di non colpevolezza”, sostanziatosi nella mancata diffusione ai cittadini di notizie di pubblico interesse, nonché con l'”abrogazione tacita” della Legge Severino – norma che prevede l’incandidabilità dei politici raggiunti da condanna -, che diviene inapplicabile per chi decide di patteggiare.
[di Stefano Baudino]