martedì 5 Novembre 2024

Le soluzioni tradizionali indigene stanno salvando la foresta del Cerrado

Il Cerrado è un territorio di savane e foreste che copre più del 20% del Brasile e una piccola parte di Paraguay e Bolivia. Da alcuni decenni a questa parte la sua sopravvivenza è fortemente minacciata: ha perso metà della sua vegetazione originaria a causa di progetti infrastrutturali – come autostrade e linee ferroviarie – e agroalimentari. Un’onda distruttiva che le comunità indigene stanno provando a contrastare portando avanti programmi incentrati sulla produzione sostenibile delle risorse alimentari originarie del territorio. Contribuendo così: da una parte a proteggere una delle regioni più ricche di biodiversità e culture del mondo, rispettando i tempi naturali dei suoi terreni; dall’altra, al sostentamento economico delle tribù stesse.

Nello specifico, i gruppi indigeni – tra cui quelli dei Terena, Kayapó e Kuikuro – si stanno specializzando nella produzione di miele, noci di baru tostate e olio di palma babaçu, prodotti poi venduti al resto del Paese ma generati attraverso sistemi di coltivazione rispettosi e naturali – e che soprattutto portano profitti a chi, di quelle terre, si prende cura da sempre.

Le iniziative sovvenzionate dal ‘Resilient Cerrado Project’ (CERES), hanno per esempio permesso ai nativi di acquistare le attrezzature necessarie alla lavorazione del miele, di installare alveari e istruire i residenti ad allevare le api. In un villaggio Kuikuro, che ospita circa 800 persone, «abbiamo già prodotto 680 chili di miele e prevediamo di raggiungere i 1.300 chili entro la fine del 2023», ha commentato uno degli esponenti della comunità. Il prodotto viene poi venduto nei mercati degli agricoltori delle città vicine e nello stesso territorio indigeno: un iter che, se mantenuto a lungo termine, potrebbe fare una grande differenza sia per l’economia che per la sicurezza alimentare degli abitanti di queste zone.

Invece, con la collaborazione dell’organizzazione ambientalista ‘Ambiental MS Pantanal’, è in progetto la costruzione una serra per allevare piantine autoctone come il pepe brasiliano e la noce di baru. Quest’ultima è già tradizionalmente inserita nella dieta della comunità Kayapó, i cui territori ne forniscono naturalmente in abbondanza. Lo studio e la maggiore conoscenza del prodotto hanno spinto però gli indigeni a sperimentarne diverse cotture e consistenze, ricavandone anche un olio – anch’esso messo in commercio.

D’altronde, chi vive quelle terre come Yacagi, esperto di amministrazione pubblica, sa che «la foresta in piedi porta soldi», e non il contrario.

Affinché il Cerrado sopravviva, queste iniziative sono essenziali. «Siamo preoccupati per l’agrobusiness e per i tentativi fatti dalle multinazionali per convincere gli indigeni a concedere la loro terra dietro compenso economico», ha commentato l’ingegnera forestale Terena Castro. È importante invece che siano i nativi ad occuparsi della terra, luogo profondamente venerato e rispettato da chi lì sopra ci è nato e cresciuto. E come è giusto che sia, che siano gli stessi a trarne profitto, laddove possibile.

Infatti «le popolazioni indigene svolgono un ruolo fondamentale perché hanno uno stile di vita che convive armoniosamente con la natura, e sono gli unici che possono farsi carico della conservazione della biodiversità nel Cerrado», che ospita il 5% degli animali e delle piante del pianeta.

Tuttavia dagli anni Cinquanta, in seguito alla rapida espansione di produzioni intensive come quelle della soia – principalmente destinata al consumo animale –  metà della vegetazione nativa è praticamente sparita. Un guaio se si pensa che delle oltre 11mila specie di piante – che le comunità locali usano per nutrirsi, curarsi e costruire oggetti – almeno 5mila non si trovano in nessun altro luogo della Terra. Oltre alle tribù native, a pagarne le conseguenze è soprattutto la fauna selvatica – fra cui 200 specie di mammiferi, 860 specie di uccelli, 180 specie di rettili, 150 specie di anfibi, 1.200 specie di pesci e 90 milioni di specie di insetti – che senza le piante finiscono per non avere né riparo, né acqua, né nutrimento. Disboscare aree come questa significa inoltre eliminare un ‘ripulitore ambientale’ naturale: è stato calcolato che, grazie alle loro radici profonde, gli alberi del Cerrado sono in grado di sequestrare circa 118 tonnellate di carbonio per acro.

Se l’involuzione della superficie ‘verde’ continua a procedere a questi ritmi e le popolazioni indigene finiscono per essere escluse dalla sua salvaguardia, si stima che l’ecosistema naturale possa finire per scomparire entro i prossimi tre decenni.

[di Gloria Ferrari]

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