Svegliarsi nel cuore della notte con il rumore infernale degli elicotteri da guerra, il passo svelto di migliaia di soldati e così tante bombe da non essere in grado di riconoscerne la provenienza. È questo che hanno provato migliaia di palestinesi nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania occupata, lo scorso 3 luglio, quando l’esercito israeliano ha lanciato un’operazione che, per intensità e violenza, mancava nella regione da vent’anni. Un’offensiva che ha provocato 12 morti e centinaia di feriti, sfollando circa 3000 dei 14000 residenti del campo profughi di Jenin: un luogo di per sé compromesso, sorvegliato dalle forze di occupazione israeliane e “casa” di diverse generazioni di palestinesi che non hanno sperimentato altra vita al di fuori di quella precaria, violenta e ingiusta decisa da Tel Aviv e perpetuata anche grazie all’inerzia della comunità internazionale. Ancora una volta, Israele ha parlato di «azione contro terroristi e contro l’Iran», usando la scusa della sicurezza per giustificare odio e violenza nei confronti del popolo palestinese.
I campi profughi in Palestina esistono dal 1948, dai tempi della Nakba, ovvero l’esodo forzato di centinaia di migliaia di persone dopo la nascita dello Stato d’Israele. Nonostante la risoluzione 194 dell’11 dicembre 1948, in cui l’Assemblea Generale garantiva ai profughi palestinesi il diritto a tornare nelle proprie case, Israele ha attuato una sistematica pratica di espulsione, uccidendo tra il 1949 e il 1956 più di 3000 persone che provavano ad attraversare la Linea Verde (confine stabilito al termine della guerra arabo-israeliana). Attualmente, tra Cisgiordania e Striscia di Gaza, si contano 27 campi profughi “ufficiali” che ospitano più di 650 mila palestinesi. 14 mila vivono nel complesso di Jenin, una sorta di città che di anno in anno vede aumentare la propria densità abitativa (l’ampliamento del campo è fortemente osteggiato da Tel Aviv). Qui, come nelle altre zone sotto occupazione israeliana, le persone devono convivere con la violenta accelerazione della colonizzazione, il furto della terra e le regolari incursioni militari. Il tutto avvallato da una comunità internazionale inerme e da un’ANP (Autorità Palestinese Nazionale) assente. Quest’ultima non gode più del sostegno dei palestinesi, delusi da anni di non-politiche e tutele mancate. Un fatto testimoniato anche dalle proteste messe in atto durante l’incursione israeliana rivolte al vecchio e mai amato leader palestinese Abu Mazen.
In un contesto di violenza e indifferenza, sempre più giovani scelgono di difendere le proprie famiglie e i propri quartieri con le armi. In questo senso, Jenin è diventato un simbolo per la Palestina: una situazione che si appiattisce sull’etichetta del terrorismo posta dai media occidentali. Ma un popolo sotto occupazione ha il diritto di resistere anche con la lotta armata, come ricorda uno dei protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra.
Le operazioni messe in atto da Israele violano il diritto internazionale e non possono più nascondersi dietro la scusa della “sicurezza”. La sproporzione delle forze messe in campo è evidente: nonostante ciò, in Occidente, le incursioni di Tel Aviv vengono tollerate e non hanno alcuna conseguenza sulle relazioni diplomatiche. Nessuna sanzione o embargo sulle armi sono stati annunciati in seguito alle violenze realizzate nel campo profughi di Jenin, che hanno strizzato l’occhio all’ala più estremi degli ebrei ortodossi presente nel governo di Tel Aviv. Mentre nel Paese si sono riaccese le proteste per la discussa riforma giudiziaria, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ben pensato di tenersi stretti i suoi alleati per continuare lungo la propria strada: quella del ridimensionamento dei poteri della Corte suprema a favore dell’esecutivo.
Dopo due giorni di assedio, i soldati israeliani hanno lasciato il campo profughi di Jenin in condizioni disastrose. Le pale delle ruspe militari hanno spaccato il manto d’asfalto delle strade, distruggendo parte della rete idrica ed elettrica. Quella che i vertici militari israeliani hanno definito «un’operazione di bonifica» necessaria a «eliminare gli ordigni» che i gruppi armati avrebbero piazzato sotto l’asfalto o ai lati delle strade per colpire i mezzi blindati «mettendo a rischio prima di tutto la popolazione civile palestinese» è sembrata più una punizione collettiva. I palestinesi, ormai abituati al disumano, hanno prontamente iniziato i lavori di ricostruzione, in attesa non tanto di diplomazia e umanità ma del prossimo attacco che prima o poi Israele sferrerà.
[di Salvatore Toscano]
Questi invece ci piacciono come alleati, mica come i cattivoni russi…
…massa di ipocriti!
Bisognerebbe mettere tutti i favorevoli all’invio di armi in Ucraina davanti a queste immagini a ciclo continuo con l’aiuto di quei dispositivi oculari che si vedevano in “Arancia meccanica”.