Nonostante i sempre più ambiziosi impegni internazionali, il Mediterraneo è ancora uno dei mari più inquinati al mondo. Complici la dilagante antropizzazione delle coste del bacino e la posizione strategica, il Mare Nostrum è quindi oggi uno dei luoghi in cui la biodiversità marina è in assoluto più minacciata. Stiamo parlando di una ricca varietà di specie, uomo compreso, costantemente sotto pressione a causa delle impattanti attività richieste dall’odierno modello socioeconomico. Al riguardo, come non menzionare la ormai ubiquitaria plastica, i cui costituenti sintetici allo stato attuale sono praticamente in ogni rete alimentare nota. Oppure i combustibili fossili e i loro continui sversamenti che, ogni giorno che passa, rendono il Mediterraneo un mare sempre meno in salute: basta infatti un singolo litro di petrolio per inquinare un milione di litri di acqua.
Le perdite accidentali di idrocarburi nel Mar Mediterraneo sono tra l’altro più frequenti di quel che si pensi. In un solo anno, sono circa 200 mila le imbarcazioni di ogni tipologia che solcano il nostro mare e circa trecento le navi cisterna che trasportano giornalmente combustibili fossili. Un quantitativo totale di idrocarburi stimato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale in 350 milioni di tonnellate all’anno, di cui almeno 600 mila tonnellate finiscono però in mare. Basti pensare che, negli ultimi tre decenni, 27 incidenti hanno riversato nelle acque circa 272 mila tonnellate di greggio. Tuttavia, il problema è che «a parte gli episodi catastrofici – ha spiegato il biologo marino Emilio Mancuso impegnato proprio nella tutela del Mediterraneo – ci sono pressoché quotidianamente delle piccole perdite di idrocarburi in mare legate allo svuotamento delle acque di sentina e alle operazioni di rifornimento delle imbarcazioni da diporto». Senza contare poi il rilascio, accidentale o volontario che sia, di gasolio, solventi, lubrificanti e altri prodotti petroliferi.
Allo stesso modo, il Mar Mediterraneo è uno dei luoghi del Pianeta dove l’impatto dei rifiuti in plastica sulla biodiversità è più alto in assoluto. A dimostrarlo un recente studio che ha monitorato gli spostamenti di 7.137 uccelli appartenenti a 77 specie diverse e analizzato come questi si sovrapponessero alle mappe della prevalenza della plastica negli oceani del mondo. I ricercatori hanno affermato che è la prima volta che i dati di tracciamento di così tante specie vengono combinati con i dati sulla distribuzione della plastica su scala globale. Una valutazione imponente che ha rivelato quanto il Mar Mediterraneo insieme al Mar Nero siano “zone a rischio” particolari: insieme rappresentano infatti oltre la metà del rischio di esposizione alla plastica per l’avifauna considerata. La portata del problema è tuttavia globale, basti pensare che tra le aree ad alto rischio figurano anche le acque circostanti gli Stati Uniti, il Giappone, il Regno Unito e persino diverse remote porzioni di oceano. Nel complesso, dalla ricerca emerge un’ulteriore conferma dei pericoli della plastica per gli uccelli marini e la biodiversità in generale. Gli animali, infatti, spesso scambiano piccoli frammenti di plastica per cibo, possono rimanere impigliati nei rifiuti o ingeriscono i polimeri plastici già mangiati dalle loro prede. In definitiva – ha sottolineato una delle autrici dello studio – sebbene ci manchi ancora una comprensione completa dell’impatto della plastica sulle specie e sugli ecosistemi, quel che sappiamo è profondamente preoccupante».
[di Simone Valeri]