Lo strano sistema delle sfide in rete (le cosiddette challenge) a volte produce fenomeni grotteschi, assurdi e che fanno seriamente dubitare dell’intelligenza dell’essere umano. In altri casi, però, questo meccanismo è stato usato per promuovere comportamenti differenti, etici, più sostenibili o se non altro a stimolare una riflessione sull’approccio ai consumi. L’idea alla base è di far rallentare, portando le persone a mettere in discussione meccanismi ormai dati per scontati, spingendo ad agire in una maniera differente. Un po’ come le diete o i digiuni dal mondo digitale, queste sfide invitano a fare a meno di alcune cose per un determinato periodo di tempo, dimostrando che si può vivere anche senza, basta volerlo. Perché? Per disintossicarsi, eliminando cose poco sane per la nostra vita e per il nostro pianeta. Nato in ambito alimentare, il concetto si estende a un sacco di ambiti, compreso quello degli acquisti. È una pausa, una sfida con se stessi e nello stesso tempo condivisa con altri grazie all’uso della rete, che in questo caso funge da appoggio e non da trappola.
#NONEWCLOTHES, 90 giorni senza comprare vestiti
Nel 1930 le donne possedevano in media 9 vestiti. E sono sopravvissute in maniera degna. Al giorno d’oggi una donna compra circa 67 capi di abbigliamento in un anno. Nel 2014 c’è stato un incremento del 60% rispetto al 1999 e per assurdo i capi durano molto meno. Questo anche grazie all’invenzione dell’obsolescenza programmata, ovvero la progettazione di capi facilmente distruttibili e difficilmente riparabili così da essere sostituiti rapidamente (grazie anche ai prezzi bassi di capi fast fashion, che invogliano a comprare anziché riparare). All’obsolescenza fisica si affianca anche quella psicologica, facendo in modo che le persone si sentano fuori moda con quel che hanno, spingendole a comprare altro. Consci di questi meccanismi, così come dell’impatto ambientale e sociale delle nostre scelte, realtà come Remake e Slow Fashion Movement, da qualche anno propongono di mettere in pausa lo shopping per alcuni giorni. Partita con 30, adesso spinge per i 90 giorni senza acquistare niente di nuovo (ma se si riuscisse a non acquistare capi in generale, anche meglio).
Perché 90 giorni? Si dice che per riprogrammare il cervello e fargli assimilare una nuova abitudine servano 21 giorni. Con i tempi che corrono e con le distrazioni all’ordine del giorno, meglio triplicare la dose per essere sicuri… In più è stato valutato che, smettendo di fare acquisti anche solo per 90 giorni, usando quello che c’è nell’armadio e allungando la vita dei propri capi, si possono ridurre le emissioni di CO2 del 24%. Inoltre, rifiutarsi di comprare non è solo un NO, ma è mettere in discussione sistemi e idee indiscusse e immutabili, solo perché sono sempre state così, dissociandosi da un sistema che non ha portato grandi benefici sulla distanza. Dal 1 giugno al 1 settembre, dunque, niente nuovi acquisti (sono ammessi capi di seconda mano, vintage o, se proprio la smania di acquisti è dirompente, almeno che siano artigiani e non grandi multinazionali).
#JULYPLASTICFREE, luglio senza plastica
Dalla Plastic Free Foundation australiana, invece, arriva l’invito a fare a meno della plastica mono-uso (e della plastica in generale) per tutto il mese di luglio. Il problema della plastica è noto e, per quanto si stiano prendendo misure per limitarne l’uso, in giro ce n’è ancora parecchia (basta buttare un occhio al secchio della differenziata, per notare che è sempre il primo a riempirsi, e non per una questione di volumi, bensì di quantità). Anche in questo caso l’invito è di farne a meno, rifiutandosi di usare/acquistare plastica monouso, trovare alternative a confezioni da asporto come bicchieri, sacchetti, bottiglie o cannucce, fino al livello estremo di impegnarsi a essere completamente liberi dalla plastica. Almeno per un mese, ma ci si può impegnare anche per una settimana o solo un giorno. Sottoscrivendo la sfida sul sito, si possono ricevere aggiornamenti con idee e spunti per trovare alternative a tutti quegli oggetti fatti per essere usati&buttati, ma con un materiale capace di durare centinaia di anni prima di decomporsi. E che, di fatto, stanno lentamente soffocando il pianeta.
#SECONDHANDSEPTEMBER: a settembre solo abiti di seconda mano
Settembre è un po’ come il vero capodanno: rientro dalle ferie, ritorno al lavoro, nuovi propositi, nuovi impegni, nuovi abiti… Per contrastare la smania del guardaroba nuovo, dal 2019 l’associazione no profit Oxfam ha indetto il Second Hand September, una campagna che invita a volgere lo sguardo al mondo spesso snobbato degli abiti di seconda mano. Alternativa decisamente meno impattante, ancora è guardata con sospetto per via di vecchi retaggi culturali sull’indossare “usato” o peggio ancora sulla sospetta scarsa igiene degli indumenti (se solo sapeste dove sono prodotti certi abiti nuovi…). Allungare la vita dei capi e smaltire quello che già c’è in circolazione, dandogli una seconda chance, è una pratica che aiuta a ridurre le emissioni, oltre che a salvaguardare risorse (che non vengono impiegate per nuove produzioni). Anche in questo caso, tramite hashtag e condivisioni in rete, si possono trovare molti spunti e idee su come fare, dove andare e che alternative trovare.
Anche se per pochi giorni, questi giochi nati in rete hanno il potere di far riflettere e coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, sensibilizzandole, anche solo per un breve periodo.
Ovvio che, per un detox fatto bene, servono motivazione (qualunque essa sia, che senza non s’inizia nemmeno), costanza, impegno, caparbietà, focus e resistenza. Ma anche un po’ di leggerezza, consapevoli che si può tornare tranquillamente alle care “vecchie” abitudini quando si vuole. Ma anche tornarci con una visione differente. Oppure sorprendersi piacevolmente di quanto si possa fare a meno di un sacco di cose, se e quando si vuole.
[di Marina Savarese]