giovedì 21 Novembre 2024

Sankara e i suoi fratelli: storie di rivoluzioni spezzate 

Troppo spesso abbiamo un’idea sbagliata dell’Africa e, più in generale, di tutti i Sud impoveriti del mondo. Si tende a credere si tratti di un continente irrimediabilmente sottosviluppato e indolente, incapace di prendere in mano le redini del proprio sviluppo, verso il quale un assistenzialismo caritevole è l’unica via. Si tratta di una visione sapientemente alimentata da una narrazione occidentale che in questo modo sciacqua le proprie colpe, deresponsabilizzandosi. La verità è che la storia africana è densa di ribellioni, di movimenti di liberazione ideologicamente consapevoli e di capi politici che hanno cercato di ribaltare il tavolo e conquistare il diritto di scrivere proprie traiettorie di sviluppo nazionali, chiedendo agli ex padroni coloniali e alle loro diramazioni finanziarie di essere semplicemente lasciati in pace. Paradossalmente sono gli unici leader che nemmeno volevano aiuti finanziari dall’Occidente, ben sapendo che questi sono l’olio che unge le ganasce che lentamente strangolano ogni possibilità di reale indipendenza. Le potenze mondiali li hanno sempre avversati, prima provando a convincerli con le buone ed infine, spesso, agendo con le cattive nel caso non fossero passati a più miti consigli. Storie che hanno nomi e cognomi, nei loro protagonisti come nei mandanti dei loro assassini.

Patrice Lumumba, un sogno di cambiamento durato 83 giorni

La nostra prima storia vede come protagonista Patrice Lumumba e ha luogo nell’attuale Repubblica Democratica del Congo (RDC), al tempo denominato Congo Belga. Il Paese, dopo aver subito l’influenza portoghese e olandese, nel 1885 era stato assegnato al re dei belgi Leopoldo II. Fino al 1908, quando divenne una vera e propria colonia belga, il re aveva gestito il Congo come un suo possedimento personale sfruttandone le risorse (al tempo avorio e gomma) e governandolo brutalmente. Per sfruttare al massimo l’estrazione della gomma, diventata fondamentale a seguito della rivoluzione industriale, Leopoldo II instaurò un regime di terrore e schiavitù che portò alla morte, secondo le stime più recenti, 10 milioni di congolesi.

Per spezzare il dominio belga Lumumba fondò il Movimento Nazionale Congolese di Liberazione e nel 1960, dopo aver vinto le elezioni, venne nominato primo ministro. Sulla scia del processo di decolonizzazione, emerso a seguito della seconda guerra mondiale, anche il Belgio decise di concedere l’indipendenza alla sua colonia. Una libertà che nelle intenzioni di Bruxelles doveva essere rigorosamente limitata. Il Belgio avrebbe mantenuto il controllo sull’esercito, su ampia parte dei quadri amministrativi e sulle risorse minerarie del Paese. Per ottenere una vera autonomia, una volta al potere, Lumumba decise di africanizzare l’esercito. Immediata la reazione del Belgio, che inviò le proprie truppe in Katanga, una ricca regione mineraria, per sostenerne la secessione dal resto del Congo e facendo piombare il Paese nel caos. Per ripristinare l’integrità del suo Paese, Lumumba cercò giustizia alle Nazioni Unite (ONU), già presenti in Congo, chiedendo supporto contro i secessionisti, ma questo gli fu negato. Il rifiuto dell’ONU spinse Lumumba a chiedere supporto all’Unione Sovietica. La possibilità che la RDC potesse finire sotto la sfera d’influenza sovietica fece entrare in scena gli Stati Uniti che non esitarono nell’offrire armi e supporto finanziario agli oppositori politici di Lumumba, guidati da un generale di nome Mobutu Sese Seko. Oltre alla lotta per l’influenza, Washington considerava il Paese strategico per le sue risorse: i due terzi dell’uranio con cui era stata prodotta la bomba atomica lanciata su Hiroshima, infatti, provenivano dal Congo. Inoltre, nel Paese erano presenti ingenti quantità di cobalto, al tempo reperibile solo lì e in Unione Sovietica, materiale fondamentale per l’industria aeronautica. Lumumba venne arrestato dai golpisti di Mobutu nel dicembre del 1960, con il beneplacito della CIA e del Belgio. Il presidente che voleva liberare il Congo subì una fine tremenda: fucilato, smembrato e poi sciolto nell’acido.

Il suo governo in tutto durò meno di 90 giorni e per oltre 40 anni è stato l’unico primo ministro eletto democraticamente nella RDC. Le sue politiche volte ad ottenere piena sovranità, autonomia politica ed economica avevano spaventato l’Occidente e le imprese minerarie, che non potevano accettare che quelle risorse diventassero fonte di ricchezza per i cittadini congolesi e non per loro. Il governo del golpista Mobutu, regime autoritario e anti-comunista, durò invece 32 anni (dal 1965 al 1997), grazie soprattutto ai generosi aiuti americani. Per il Congo è stato poi un susseguirsi di guerra, caos e instabilità per il controllo delle ricche regioni dell’est, questa volta per diamanti e coltan, minerale strategico per la costruzione di dispositivi informatici. Il risultato è che, ad oggi, la Repubblica Democratica del Congo è uno dei Paesi più poveri al mondo, dove oltre 30 milioni di persone sono costrette a vivere con meno di due dollari al giorno. Eppure, la ricchezza in termine di minerali del Paese è stimata in 24 trilioni di dollari. Per rendervi conto di quanti siano provate a leggere gli zeri: 24.000.000.000.000.000.000 dollari.

Mu’ammar Gheddafi, il beduino a cui la storia darà ragione

«Tu Silvio mi hai tradito, io morirò dove sono nato, perché io sono un beduino del deserto e nessuno mi costringerà ad inchinarmi»: queste sono le parole del presidente libico Mu’ammar Gheddafi nella sua ultima telefonata a Roma, raccontate dall’allora ministro degli esteri Franco Frattini durante un’intervista. Gheddafi venne catturato e ucciso dai ribelli a Sirte nell’ottobre del 2011. La sua caduta è stata causata dall’intervento militare di Francia, Stati Uniti e poi NATO. Con il pretesto umanitario, queste decisero infatti di bombardare le truppe governative e sostenere i ribelli che, sulla scia della Primavera Araba, volevano la caduta del rais al potere in Libia da oltre 40 anni. L’intervento occidentale, in realtà (come spesso succede), era legato ad interessi economici e politici, in particolare quelli francesi del presidente del tempo, Nicolas Sarkozy. Il leader libico stava lavorando alla creazione di istituti finanziari regionali autonomi che, legati a una nuova moneta panafricana ancorata al dinaro libico, avrebbero sostituito il Franco Francese (CFA), su cui la banca centrale di Parigi aveva pieno controllo. Tali misure avrebbero potuto svincolare dal punto di vista finanziario diversi Paesi del continente. Queste sono le ragioni che spinsero all’intervento militare: non è una ipotesi, ma storia. A provarlo una mail inviata all’ex Segretaria di Stato USA Hillary Clinton da un alto funzionario, intercettata e divulgata da Wikileaks: «Secondo le informazioni disponibili, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento. […] L’oro è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e doveva essere utilizzato per stabilire una moneta panafricana basata sul dinaro libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA). Gli ufficiali dei servizi segreti francesi hanno scoperto il piano dopo lo scoppio dell’attuale ribellione e questo è stato uno dei fattori che hanno convinto il presidente Nicolas Sarkozy».

Appare quindi chiaro come la questione dei diritti umani venne utilizzata come pretesto per intervenire militarmente e rovesciare un governo legittimo, facendo piombare l’intera Libia nel caos che dura ancora oggi. Gheddafi è stato sempre un personaggio scomodo per l’Occidente, autonomo e promotore di un socialismo di ispirazione nazionale. Appena salito al potere, nel 1969, decise di nazionalizzare la maggior parte delle proprietà petrolifere straniere, chiudere le basi militari americane e britanniche e confiscare le proprietà degli ex coloni italiani espellendoli dalla Libia. Che dietro l’intervento militare del 2011 non ci siano ragioni umanitarie lo dimostra poi lo stato di abbandono in cui è precipitato il Paese dopo la sua uccisione. La Libia è diventata terra di conquista tra le fazioni che si contendono il potere e i Paesi stranieri in lotta per l’influenza come Turchia, Qatar e Russia. La tratta di esseri umani è diventato il nuovo business: potenti gruppi criminali hanno trasformato infatti la Libia in un moderno lager, dove migliaia di migranti sono tenuti in schiavitù.

Che la destabilizzazione della Libia potesse essere un potenziale disastro per l’Italia lo sapeva bene l’ex presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi, che nel 1986 avvisò Gheddafi, salvandogli la vita, dei bombardamenti americani su Tripoli che miravano ad ucciderlo. Purtroppo il ruolo dell’Italia sullo scenario internazionale nel 2011 era già drasticamente in declino e l’allora governo Berlusconi nulla fu in grado di fare di fronte agli interessi di Parigi e Washington, nonostante andassero nella direzione opposta a quelli di Roma.

Thomas Sankara, il Che Guevara d’Africa

L’ultimo personaggio di cui vi vogliamo raccontare la storia è Thomas Sankara, uno dei leader più rispettati e carismatici nella storia dell’Africa occidentale sub-sahariana, ancora oggi venerato. La storia di Sankara ha luogo in quello che oggi è il Burkina Faso, che fu colonia francese fino al 1960 con il nome di Alto Volta. Il nome Burkina Faso, che in lingua more e bambara significa “Terra degli uomini integri”, lo si deve proprio ad un decreto emesso da Sankara nel 1984. Capitano dell’esercito e politico, Sankara salì al potere nel 1983 e attuò subito una serie di riforme economiche e sociali per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Si adoperò nella costruzione di scuole, ospedali e case, soppresse i privilegi di latifondisti, politici e funzionari, attuò una seria lotta contro la corruzione. Riconobbe l’AIDS come una piaga sociale che stava attraversando il continente africano, negli stessi anni in cui la Chiesa Cattolica ancora si batteva contro l’utilizzo del preservativo.

Tra le misure del “fratello giusto” (le frère juste, come lo chiamava il popolo burkinabè) c’erano inoltre lo sviluppo della piccola impresa, l’abbassamento dei prezzi di cibo e delle materie prime, la scuola obbligatoria e gratuita e l’introduzione del primo sistema di trasporto pubblico dell’africa francofona. Con lui vennero inoltre contrastate tutte le importazioni di beni inutili, ossia tutti quei beni secondari che creavano solo debito per il Burkina Faso. In soli quattro anni di governo Sankara migliorò l’economia della nazione e garantì a ogni cittadino istruzione, cure di base, due pasti al giorno e cinque litri di acqua potabile. Un successo straordinario e senza uguali nell’Africa nera. Per conoscere al meglio la sua opera non c’è nulla di più utile che ricordare le parole da lui pronunciate il 4 ottobre 1984, quando si presentò per la prima volta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Di fronte a lui vi erano i leader dell’ex oppressore francese e dei Paesi occidentali che con le loro politiche e le loro multinazionali affamavano l’Africa. Sankara prese il microfono e annunciò il suo programma, accusando tutti quanti allo stesso tempo: «Abbiamo dovuto indirizzare la rivolta delle masse urbane prive di lavoro, frustrate e stanche di vedere le limousine guidate da élite governative estraniate che offrivano loro solo false soluzioni concepite da cervelli altrui. Abbiamo dovuto dare un’anima ideologica alle giuste lotte delle masse popolari che si mobilitavano contro il mostro dell’imperialismo. Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere alla felicità, respingendo duramente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono raddoppiati. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non riceveremo più schiaffi».

Il 15 ottobre 1987 Sankara venne ucciso a colpi di pistola: l’esecutore materiale fu il suo collaboratore Blaise Compaorè, che subito dopo si autoproclamò presidente al suo posto, prontamente riconosciuto da tutte le potenze occidentali.

[di Enrico Phelipon]

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