Quella delle armi è un’industria fiorente e in continua crescita. Basti pensare che in soli dieci anni, tra il 2010 e il 2020, il fatturato totale registrato è di ben 5 mila miliardi di euro. Senza dubbio la guerra in Ucraina ha impresso una notevole spinta al settore, con incrementi impressionanti della spesa militare dei singoli Paesi nell’ultimo anno. Ma il mercato non riguarda solamente i contesti di guerra. Anche gli apparati di polizia, infatti, si stanno dotando di strumentazioni sempre più sofisticate le quali, seppur classificate come non letali, pongono in serio pericolo la vita dei cittadini.
Quello delle armi e della guerra è un business sempre più redditizio, ma chi è a trarne reale profitto? Questo l’interrogativo intorno al quale ruotano le inchieste contenute nel nuovo numero del Monthly Report, il mensile de L’Indipendente all’interno del quale trattiamo tematiche di particolare rilevanza che riteniamo non sufficientemente approfondite dalla comunicazione mainstream.
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L’editoriale del nuovo numero: Il diritto alle armi e quello alla resistenza
Saint-Soline, Francia: a marzo scorso scoppia una protesta in difesa dell’ambiente, in migliaia si ritrovano per giorni ad occupare il terreno dove dovrebbero cominciare i lavori di costruzione di una grande diga. Alcuni tra i manifestanti sono armati con sassi e bottiglie incendiarie autoprodotte: le utilizzano per fermare l’avanzata della polizia che intende sciogliere la protesta con la forza. Naturalmente le armi a disposizione delle forze dell’ordine sono decisamente più professionali, attingendo appieno dal bagaglio di quelle che, in una definizione che puzza di ossimoro, vengono dette armi non letali e sono sempre più in uso tra le polizie occidentali: lacrimogeni, spray urticanti, idranti, e poi pallottole di gomma, pistole taser, laser accecanti, granate esplosive e stordenti. Il risultato è che, alla fine, sul campo di battaglia rimangono a terra 250 manifestanti feriti, di cui dieci finiti in ospedale, due a rischio disabilità e uno in pericolo di vita.
Jenin, Palestina: la sera del 21 giugno quattro ragazzi palestinesi sono in auto. Secondo le autorità israeliane sarebbero armati di fucili e forse è vero: militano in una delle sigle della resistenza contro l’occupazione israeliana della loro terra. Dopotutto il diritto internazionale, se non fosse una disciplina rispettata solo quando conviene, sarebbe dalla loro parte. Le Convenzioni ONU stabiliscono infatti che “la lotta armata può essere usata, come ultima risorsa, come mezzo per esercitare il diritto all’autodeterminazione”. Di certo è armato fino ai denti lo stato d’Israele. Alle sue autorità militari è sufficiente geolocalizzarli e inviare un drone che, una volta giunto sopra la loro auto, la crivella di colpi. Muoiono così, come topi in trappola, senza alcun processo in un vero e proprio omicidio di Stato.
Esiste una vulgata talmente accettata da essere ritenuta vera quasi da tutti e mai messa in discussione, la sentiamo ripetere da opinionisti, giornalisti e politici di ogni schieramento ogni volta che un fatto come i due appena descritti balza alle cronache: “la violenza è sempre da condannare e non ha scuse”. In una retorica dove la violenza da condannare finisce per essere sempre quella di chi si oppone, contrapposta a quella “sempre legittima” degli Stati, fossero anche occupanti di terre altrui come nel caso israeliano. Una delle tante dinamiche attraverso le quali, per dirla con Malcom X, i media ci portano ad amare gli oppressori ed odiare gli oppressi.
Se il nuovo numero del Monthly Report è dedicato interamente alla questione delle armi – al loro uso civile, militare e repressivo, alla poderosa economia che muovono, alle ragioni contrapposte di chi ne difende il diritto e chi si oppone alla loro diffusione – credo sia utile usare queste righe per riflettere sul convitato di pietra: il diritto alla resistenza. Solo a parlarne si passa per estremisti – a meno che non ci si riferisca all’Ucraina, va da sé – eppure per lungo tempo è stato ritenuto un punto fermo del diritto, caposaldo di quello che i filosofi dell’era illuministica definivano il patto sociale tra Stato e cittadini, al punto da essere inserito nella Costituzione di 37 nazioni, inclusi Stati Uniti, Francia e Germania. In un’era sempre più alle prese con armi tecnologicamente avanzate e micidiali, non solo in ambito militare ma anche in quello della repressione interna del dissenso sociale, immaginare nuovi confini sia per il diritto alle armi e al monopolio della forza degli Stati, sia per quello alla resistenza e alla contestazione dei cittadini, è un obiettivo doveroso.
L’indice del nuovo numero
- Il grande affare delle armi e della guerra
- Le alterne vicende del pensiero armato
- USA: la teoria del diritto alle armi e la cruda realtà
- Come incentivare i cittadini a disarmarsi: il caso dell’Australia
- E le chiamano armi non letali: le nuove frontiere della repressione poliziesca
- Etica e commercio: la democratica Italia che arma i totalitarismi
- Il neoliberismo segna il ritorno della guerra in mano ai privati
- Come la cyberguerra è divenuta parte della nostra realtà
- Armi ad energia diretta: l’ultima frontiera del controllo mentale
- La lotta dei portuali italiani contro il traffico d’armi
- L’impatto ecologico della deriva bellica globale
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