martedì 3 Dicembre 2024

La decrescita nella moda è un’utopia ancora lontana

È uscito qualche giorno fa il Fashion Transparency Index 2023, rapporto che fotografa evoluzioni ed involuzioni della trasparenza nel settore tessile mondiale. Seppure alcuni dati mostrano dei piccoli passi in avanti, con una tendenza in crescita e un’apertura verso la trasparenza, moltissimi sono ancora i punti oscuri, primo tra tutti il non voler rendere pubblici i propri volumi produttivi. Ebbene sì, inutile girare intorno a quell’enorme elefante nella stanza: la sovrapproduzione e l’iper consumo sono il vero problema della moda. Quelle quantità abnormi di vestiti che vengono prodotte a ciclo continuo per essere consumate e rapidamente sostituite, finendo gettate in discariche a cielo aperto. Il fatto è ormai sotto gli occhi di tutti, visibile anche dallo spazio, eppure ancora l’88% dei marchi si rifiuta di ammettere pubblicamente quali sono i numeri delle proprie produzioni.

Un dato facilmente reperibile, dato che nessuna azienda, nemmeno la più piccola, non è al corrente di quanti capi produce a stagione o annualmente (ogni capo prodotto è un costo, impossibile perdere di vista certi numeri). Eppure tutto tace, tutto opportunamente nascosto nei libri contabili o in qualche cassetto abbandonato. 

E non si tratta di preziosi segreti aziendali, si tratta di avere la coda di paglia, consci che in tutto questo circo chiamato moda sostenibile, il primo vero impegno sarebbe quello di tirare un po’ il freno a mano. Ed essere disposti a ridimensionarsi. Il report ha cercato di sondare il terreno anche in questo senso, con un risultato che la dice lunga: il 99% dei brand non ha rilasciato dichiarazioni in merito alla volontà di diminuire il numero di capi prodotti.

Il tema della decrescita, dunque, non è ancora diventato di moda. E molto probabilmente non lo diventerà mai. Conciliare le ambizioni aziendali con i limiti oggettivi del pianeta non sembra essere una strada percorribile. Eppure, continuare a spingersi oltre questi limiti (perché è evidente che siano già stati superati) può essere altamente rischioso: aumento delle temperature, innalzamento del livello del mare, deforestazione con tutti i suoi effetti collaterali stanno già accadendo. Sotto ai nostri occhi giornalmente. Ovvio, non sono imputabili solo al sistema moda, ma indubbiamente fa la sua parte. Tutte le alternative proposte, come programmi di ritiro dei vecchi capi, piattaforme che affiancano la rivendita dell’usato accanto a quella tradizionale e altri business alternativi che strizzano l’occhio alla circolarità sono solo accessori (e fumo negli occhi) se non si riducono i volumi produttivi. Nonostante le controindicazioni evidenti di questo sistema, al profitto nessuno è disposto a rinunciare

Se almeno queste entrate fossero distribuite equamente lungo la catena produttiva… ma niente, anche in questo caso il report evidenzia come i numeri grandi sono appannaggio della punta della piramide, mentre in fondo restano meno delle briciole.

I CEO delle aziende hanno degli stipendi da capogiro, il che crea un voragine tra il loro ingresso mensile ed il salario dei lavoratori. È noto a tutti che alcuni dirigenti di queste multinazionali della moda sono tra le persone più ricche al mondo; ecco perché dovrebbero essere ritenuti in parte responsabili dell’impatto ambientale e sociale del proprio marchio. Ecco perché non hanno intenzione di mollare di un millimetro. Molto meglio cercare soluzioni palliative ai loro soprusi. O mettere la testa sotto la sabbia quando si tratta di garantire salari degni a chi produce i loro abiti (ma anche all’ultimo stagista assunto con promesse di carriera). Come se il problema non li riguardasse. Per questo esistono associazioni come Clean Clothes Campaing o campagne come Good Clothes, Fair Pay, che si stanno impegnando per chiedere una legislazione che garantisca un salario dignitoso per i lavoratori tessili di tutto il mondo. Una legislazione che, se approvata, trasformerebbe l’industria globale della moda, facendo assumere ai marchi la responsabilità dei lavoratori della loro catena produttiva.

Anche in questo senso, infatti, il report evidenzia ancora una grande mancanza: il 52% dei brand ha rivelato (finalmente) i propri fornitori, ma il 99% non ha ammesso quanti di questi ricevono un salario minimo che garantisca loro le necessità basiche. Probabilmente perché sono ancora molto bassi, sicuramente indegni, se paragonati a quelli dei grandi capi. E non vale la narrazione del “nei loro Paesi funziona così”: certi stipendi sono da fame, in qualunque parte del mondo.

L’ingiustizia sociale, in questo modo, viene non solo alimentata, ma favorita, in nome di un sistema scorretto che favorisce pochi a discapito di molti. Anzi, di tutti. Perché i soldi, su un pianeta morto, non serviranno a molto. Nemmeno a loro.

[di Marina Savarese]

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