venerdì 27 Dicembre 2024

Turni estenuanti e nessun diritto: il caporalato ha conquistato anche la Lombardia

Nel nostro Paese, generalmente, si tende a considerare il caporalato in agricoltura come un fenomeno legato prevalentemente al Mezzogiorno nonostante esso interessi in maniera importante anche il Nord Italia: a sottolinearlo è un rapporto dell’associazione ambientalista Terra!, con il quale è stata posta la lente di ingrandimento sullo sfruttamento dei lavoratori in Lombardia. Quest’ultima, infatti, è una delle regioni più colpite da procedimenti giudiziari legati al caporalato, che riesce ad essere portato avanti grazie a forme sofisticate e spesso collocate al limite tra legalità e illegalità. Turni estenuanti, contratti pirata ed il cosiddetto lavoro grigio sono solo alcuni dei modi con cui lo sfruttamento dei lavoratori ha luogo in Lombardia, la cui situazione conferma come il caporalato sia in troppi casi la norma anche nelle regioni del Nord: dei 405 distretti italiani in cui viene commesso il reato di sfruttamento del lavoro in agricoltura, infatti, circa un terzo si trova al Nord.

Concentrandosi sulle provincie di Mantova, Brescia, Bergamo e Cremona, il rapporto ha analizzato tre importanti filiere produttive che in Lombardia vedono il loro centro nevralgico: quella del melone, delle insalate in busta e della carne. Ebbene, la produzione del melone pare inficiata dalla sopracitata pratica del lavoro grigio, una tecnica “largamente utilizzata nel mondo agricolo italiano” consistente nel “segnare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle realmente lavorate”. Così facendo, la tassazione viene applicata “soltanto sulla quota rilevata”, il che si traduce in “meno contributi da versare per l’impresa e un salario arbitrario nelle tasche dei braccianti”. Gli stessi, poi, sono soggetti ad una condizione di subalternità, nonché a minori garanzie sugli ammortizzatori sociali, dei quali possono godere grazie ad un numero di giornate registrate spesso non veritiero. Per non parlare delle “cooperative senza terra”: vere e proprie “società-contenitore” che “fungono esclusivamente da serbatoi di braccia”. Lo sfruttamento, qui, avviene generalmente in due modi: o l’azienda agricola versa il corrispettivo congruo alla cooperativa, che però elargisce uno stipendio misero ai lavoratori, oppure l’azienda agricola “tira fuori una cifra ben al di sotto della soglia salariale dovuta” di comune accordo con la cooperativa, che “concretizza il proprio guadagno sulla disperazione dei braccianti”.

La filiera produttiva delle insalate in busta, invece, risulta caratterizzata da “turni estenuanti, giungle di contratti e, anche in questo caso, esternalizzazione del lavoro”. Uno degli elementi critici, inoltre, è la corretta remunerazione del prodotto, “pagato spesso meno del dovuto dalle catene della Grande distribuzione organizzata”. Il tutto a danno della parte agricola, che visto l’inadeguato guadagno “taglia i costi”. Tralasciando poi le importanti criticità ambientali legate a prodotti del genere – come l’eccesso di imballaggi in plastica – certamente da menzionare sono le condizioni lavorative cui devono sottostare gli operai. “Uno degli assiomi del settore è mantenere basse le temperature per la deperibilità del prodotto vegetale”, afferma il rapporto, in cui viene sottolineato che i lavoratori devono patire il freddo: il termometro, infatti, “non deve sforare i 7 gradi nelle celle di conservazione ed i 14 negli ambienti di lavoro”.

Ultima ma non meno importante, infine, è la filiera suinicola: la Lombardia “ospita il 50% dei capi suini presenti in Italia”, con “oltre 4 milioni di animali stipati in 6.7471 allevamenti”. Una filiera che dunque non solo genera notevoli criticità ambientali e sanitarie, ma che sembra sfruttare i lavoratori al pari delle altre. “Anche nel caso della filiera suinicola buona parte del lavoro è stato esternalizzato in cooperative”, si legge ad esempio nel rapporto, che precisa come “pur adempiendo in molti casi agli stessi compiti dei dipendenti direttamente assunti dall’azienda, a fine mese gli operai ottengono paghe sensibilmente inferiori e godono di diritti e tutele al ribasso, quando non del tutto inesistenti”. Un’ulteriore prova dello sfruttamento come condizione comune del comparto agroalimentare, che data la sua rilevanza dovrebbe essere migliorato. “È importante intervenire con azioni multilivello che agiscano sui diversi ambiti della filiera”, conclude infatti il rapporto, che “ha dimostrato, ancora una volta, come non esista una sola filiera agricola che possa considerarsi esente da fenomeni di sfruttamento”.

[di Raffaele De Luca]

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