domenica 22 Dicembre 2024

Il vertice per la tutela dell’Amazzonia si è concluso in un nulla di fatto

Si è concluso a Belém, in Brasile, il vertice dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (OCTA), nata nel 1995 con lo scopo di preservare il polmone verde della Terra. L’incontro del 9 e 10 agosto ha riunito i rappresentanti, tra presidenti e ministri, di 8 Paesi amazzonici: Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Bolivia, Perù, Venezuela e Suriname. Le parti non sono riuscite a convergere su posizioni condivise, producendo una dichiarazione congiunta leggera di contenuti. Sono saltati gli accordi più attesi alla vigilia: l’impegno comune per porre fine alla deforestazione entro il 2030 e la riduzione, fino all’esclusione, della ricerca di fonti fossili nel sottosuolo amazzonico. Ennesima vittoria, dunque, dell’industria estrattiva, dell’agrobusiness e della criminalità locale, dotate di una forza che evidentemente surclassa quella politica, incapace di tutelare il benessere dei propri cittadini.

Il vertice dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (OCTA) si è concluso senza la formalizzazione di una strategia comune contro la deforestazione, il fenomeno antropico che più minaccia il futuro della regione. L’intesa avrebbe rilanciato l’impegno di “deforestazione zero entro il 2030” assunto da oltre 100 Paesi durante la tanto discussa Cop26 (la conferenza sul clima delle Nazioni Unite) tenutasi a Glasgow. Impegno disertato, tra gli altri, da due degli otto Paesi che compongono l’OCTA: Venezuela e Bolivia, i quali non presero parte all’accordo. Al vertice di Belém si è poi discusso di fonti fossili, senza arrivare a una posizione comune, tant’è che il tema è sparito dalla dichiarazione finale. Il presidente colombiano Gustavo Petro aveva chiesto l’impegno a ridurre, fino a escludere, la ricerca e dunque lo sfruttamento delle fonti fossili nel sottosuolo amazzonico. Proposta bocciata al tavolo, con il presidente brasiliano Lula convinto della possibilità di perforare la regione senza provocare disastri ambientali. Una presa di posizione influenzata dal boom petrolifero offshore che sta vivendo il Paese, intenzionato a sfruttare i benefici economici delle riserve presenti, pari a 12,7 miliardi di barili di greggio. Soltanto a maggio, Lula si è detto favorevole all’estrazione di petrolio nei pressi della foce del Rio delle Amazzoni, sollevando non poche proteste dalle associazioni ambientaliste. Al vertice di Belém non sono stati raggiunti risultati soddisfacenti nemmeno per la lotta all’estrazione illegale di oro, altra pratica che devasta l’ecosistema amazzonico. I Paesi OCTA non sono riusciti, infatti, a fissare una scadenza entro cui azzerare il fenomeno.

Durante l’incontro in Brasile non sono mancate poi le stoccate all’Occidente, che dopo secoli di sviluppo inquinante chiede ai Paesi emergenti un cambio di rotta nelle loro attività economiche, facenti leva sullo sfruttamento delle risorse minerarie. Un cambio di rotta certamente necessario per la salvaguardia ambientale ma che così formulato dai Paesi ricchi non può che apparire come uno scarico di responsabilità, soprattutto se si considera che i maggiori produttori di CO2 siano Cina e Stati Uniti, le due superpotenze economiche. Gli otto membri dell’OCTA hanno sottolineato come gli Stati sviluppati non abbiano mantenuto la promessa (risalente al 2009 durante la Cop15) di fornire ogni anno 100 miliardi di dollari in finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo, i più esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici, come nel caso dell’intensificazione dei fenomeni estremi.

Il 3 luglio 1978, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Bolivia, Perù, Venezuela e Suriname hanno sottoscritto il Trattato di cooperazione amazzonica, con cui in sostanza si impegnavano a promuovere un modello di sviluppo sostenibile, dunque rispettoso dell’ambiente e delle risorse presenti in Amazzonia. Nel 1995, per rafforzare quanto disposto dall’accordo, gli 8 Paesi fondarono l’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (OCTA). Il coordinamento sovranazionale tra le politiche statali, auspicato dall’OCTA per proteggere il polmone verde della Terra, non è mai stato raggiunto in modo effettivo. Lo dimostrano i soli 3 incontri, di cui l’ultimo avvenuto a Belém, realizzati dal blocco socioambientale in 45 anni e gli scarsi risultati raggiunti. Dal 1995, anno di fondazione dell’OCTA, al 2021 l’Amazzonia ha perso una superficie di oltre 300 mila chilometri quadrati (grande quanto il territorio italiano) a causa della deforestazione selvaggia. L’eredità dell’indifferenza istituzionale verso la causa che, tutelando i vari gruppi di interesse presenti nella regione, si è fatta promotrice negli anni di politiche predatorie, come durante il mandato presidenziale di Jair Bolsonaro.

Fortunatamente negli ultimi mesi la deforestazione dell’Amazzonia ha subito una battuta d’arresto: l’area rasa al suolo nei primi quattro mesi dell’anno è stata inferiore del 38% rispetto al 2022. Tuttavia è ancora troppo presto per esultare. Sulla foresta amazzonica grava infatti la minaccia dei grandi progetti infrastrutturali del Brasile. Lula ha ripreso in mano il discusso progetto della “EF-170 railway project”, più nota come “progetto Ferrogrão”. Si tratta di una linea ferroviaria per trasportare la soia, la cui costruzione è stata progettata nel 2012 sotto il governo di centro-sinistra guidato da Dilma Rousseff, dichiarata come priorità assoluta dal successivo esecutivo Bolsonaro, poi bloccata e ora di nuovo tornata “in vita”. I binari servirebbero a ridurre i costi di trasporto della soia, di cui il Brasile è il secondo produttore ed esportatore al mondo. Ma non tutti sono d’accordo, principalmente perché la loro costruzione spazzerebbe via 23mila ettari di foresta pluviale. Più della metà situati nel parco indigeno dello Xingu.

[di Salvatore Toscano]

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