Una nuova ricerca ha rivelato che i crediti di carbonio derivanti da progetti di riforestazione non compensano la maggior parte delle emissioni rilasciate dalle attività industriali. Un gruppo internazionale di scienziati, in particolare, ha esaminato 26 siti in cui sono stati realizzati i cosiddetti progetti di contrasto alla deforestazione REDD+ in tre diversi continenti. Il dubbio principale, è emerso, è su come gli sviluppatori calcolano l’impatto dei loro progetti, al punto che circa il 94% dei crediti di carbonio derivanti da questi non rappresenterebbe una reale mitigazione delle emissioni climalteranti.
REDD+ è l’abbreviazione di riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado forestale nei Paesi in via di sviluppo. L’idea è che la “monetizzazione” di foreste minacciate attraverso l’emissione di crediti di carbonio contribuisca a scongiurare un ulteriore aumento della temperatura globale. A sua volta, la vendita di questi crediti dovrebbe generare un flusso di reddito da investire nuovamente nella conservazione delle foreste, che secondo i sostenitori è fondamentale per proteggere non solo il carbonio che la biomassa contiene, ma anche altri servizi ecosistemici, la biodiversità e le risorse vitali. Questi progetti rientrano nel più ampio contesto del mercato del carbonio, il sistema ideato per compensare le emissioni industriali attraverso lo scambio di quote di carbonio, i cosiddetti crediti. Per farla breve, chi emette più di quanto dovrebbe è costretto ad acquistare questi ultimi da aziende più virtuose, agricoltori o, per l’appunto, da progetti di mitigazione.
Tuttavia, che tale sistema si traduca realmente in una riduzione delle emissioni è tutt’altro che certo. Ad esempio non è semplice garantire che ogni credito venduto sia effettivamente equivalente ad una tonnellata metrica di anidride carbonica che sarebbe stata rilasciata nell’atmosfera se non ci fosse stato il progetto. Il problema – spiegano i ricercatori – è che è proprio questo il metodo con cui viene calcolata l’efficacia di un dato intervento. Algoritmi diversi potrebbero portare poi a conclusioni molto variabili e questo potrebbe condurre anche a stimare tassi di deforestazione ipotetici più alti di quelli che si sarebbero realmente verificati. Questa flessibilità è un grosso limite, dato che è nell’interesse degli sviluppatori affermare che il loro progetto ha avuto il massimo impatto possibile e, quindi, vendere un maggior numero di crediti. Per valutare questi interventi, i ricercatori hanno confrontato la deforestazione misurata all’interno dei confini del progetto con una serie di aree di controllo, una combinazione di luoghi reali selezionati perché simili, in termini di dimensione e rischio di deforestazione, all’area del progetto. Gli scienziati hanno così scoperto che i progetti REDD+ tendono a sovrastimare la quantità di deforestazione che si sarebbe verificata senza la loro presenza. Secondo i calcoli, queste stime avrebbero permesso ai promotori degli interventi di richiedere ben 89 milioni di crediti.
Il risultato è che anche le aziende particolarmente impattanti possono acquistare questi crediti e sbandierare il loro impegno nel contrasto ai cambiamenti climatici. Tra queste vi è ad esempio la multinazionale petrolifera ENI, la quale da anni sta proprio sfruttando lo strumento REDD+ per compensare le emissioni causate dalle sue attività estrattive. Il Cane a sei zampe ha infatti da tempo annunciato di aver siglato accordi per progetti di questo genere in vari Paesi dell’America Latina e dell’Africa. Peccato però che la credibilità degli schemi di compensazione, come ha confermato la recente ricerca, sia decisamente compromessa. Calcoli basati su stime aleatorie che supportano progetti utili perlopiù a tenere in vita, ancora per decenni, il modello economico fondato sull’estrazione dei combustibili fossili.
[di Simone Valeri]