domenica 22 Dicembre 2024

L’altro 11 settembre: quando un golpe fece del Cile il primo laboratorio del neoliberismo

Sono le ore 14 dell’11 settembre 1973 a Santiago del Cile. Da alcune ore i militari stanno circondando il palazzo presidenziale per deporre il presidente democraticamente eletto Salvador Allende, ma questi non si arrende e si barrica imbracciando un fucile AK-47. Allende preferisce perdere la vita piuttosto che accettare il colpo di Stato. Sul palazzo presidenziale arrivano i caccia dell’esercito, gentilmente venduti dal Regno Unito, che iniziano a bombardare l’edificio. Preso atto dell’impossibilità di continuare la resistenza, Allende riserva l’ultimo colpo del fucile, regalatogli dal leader cubano Fidel Castro, per sé stesso. Dopo il golpe sale al potere il generale Augusto Pinochet e gli Stati Uniti si affrettano a riconoscerlo come presidente legittimo. Governerà per 17 anni, durante i quali “scompariranno” circa 40.000 persone, tra cui migliaia di oppositori politici. Non a caso, il Cile di Pinochet è ricordato come una delle dittature più sanguinarie del ‘900. Ma non è tutto: c’è un altro motivo che fa del golpe cileno un punto di svolta per il mondo intero. Una volta al potere, il generale chiama infatti ad amministrare l’economia nazionale Milton Friedman e i suoi studenti dell’Università di Chicago, ovvero i teorici del neoliberismo, che in Cile – grazie alla dittatura e ai generosi prestiti di Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale – trovano un primo laboratorio per tradurre in pratica le loro teorie, anticipandone il dominio sui modelli di sviluppo di tutto l’Occidente.

Statua di Salvador Allende, Santiago del Cile.

Il Cile di Allende e perché non poteva rimanere al potere

Salvador Allende, candidato del Partito Socialista Cileno, diviene presidente dopo aver vinto le elezioni del 4 settembre 1970, appoggiato da una coalizione comprendente il Partito Comunista del Cile (cui candidato era il poeta Pablo Neruda) e il Partito Democratico Cristiano. A Washington non prendono bene il risultato democratico delle urne, al punto che il segretario di Stato, Henry Kissinger, dopo le elezioni dichiara: «Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli». Allende non si fa comunque intimidire dalle pressioni e minacce statunitensi, tracciando quella che definisce la via cilena al socialismo. In un’intervista rilasciata al New York Times il 4 ottobre 1970, il neopresidente dichiara: «Noi partiamo da diverse posizioni ideologiche. Per voi essere un comunista o un socialista significa essere totalitario, per me no… Al contrario, io credo che il socialismo liberi l’uomo». In Cile viene avviato un ampio programma di nazionalizzazioni, che in pochi mesi coinvolge tutti gli apparati economici del Paese, dall’industria ai servizi, passando per l’attività estrattiva, assestando un duro colpo al capitale privato statunitense, che soprattutto attraverso la Kennecott e la Anaconda controllava grandi fette del mercato cileno. Un sistema che gli Stati Uniti proponevano in tutta l’America Latina, considerata da Washington come il proprio “cortile di casa”. Si pensi all’impero realizzato negli anni ’50 dalla multinazionale americana United Fruit (oggi Chiquita) in Guatemala; anche in quel caso un leader socialista – Jacobo Árbenz Guzmán – avviò un ampio processo di nazionalizzazione a favore dei campesinos. Di tutta risposta, la CIA organizzò un golpe (Operazione PBSuccess), pose fine alla rivoluzione guatemalteca e fece piombare il Paese in una stagione buia, con il popolo costretto a fare i conti con dittature fedeli alla Casa Bianca.

Nel 1973, dopo tre anni di presidenza Allende, lo Stato controlla il 90% delle miniere, l’85% delle banche, l’84% delle imprese edili, l’80% delle grandi industrie, il 75% delle aziende agricole e il 52% delle imprese medio-piccole. I possedimenti dei latifondisti sono espropriati e affidati a contadini, braccianti e piccoli imprenditori agricoli. Dal punto di vista dei diritti civili, il governo di Unidad Popular introduce il divorzio, legalizza l’aborto e annulla le sovvenzioni alle scuole private, irritando non poco i vertici della Chiesa cattolica presenti nel Paese. Per quanto riguarda le politiche sociali, vengono introdotti ingenti incentivi all’alfabetizzazione, un salario minimo per tutti i lavoratori, il prezzo fisso del pane, la distribuzione gratuita di cibo ai cittadini più indigenti e l’aumento delle pensioni minime. Il governo avvia anche un intenso programma di lavori pubblici, tra i quali la metropolitana di Santiago, inseguendo l’obiettivo della connessione tra periferie e centri. Vengono costruite, inoltre, numerose case popolari e strutture sanitarie come gli ospedali, in particolare nelle zone più povere del Cile. Dunque, la spesa sociale cresce fortemente, bilanciata dalle parallele politiche di redistribuzione della ricchezza. Fino alla realizzazione del colpo di stato, il Paese vede, seppur parzialmente erosa dall’inflazione, una continua crescita economica, soprattutto in termini di salario reale. 

Salvador Allende insieme al lìder maximo di Cuba, Fidel Castro

In ambito estero, il Cile di Allende si avvicina particolarmente a Cuba e Unione Sovietica. Nel 1971, il presidente cubano Fidel Castro viene ricevuto al Palacio de La Moneda, residenza presidenziale cilena, per una visita ufficiale che dura 23 giorni. Allende ripristina le relazioni diplomatiche con l’Havana, scavalcando un divieto avanzato da Washington all’interno dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che sostanzialmente impediva ai Paesi membri di tenere atteggiamenti di apertura verso Cuba. Sempre nel 1971, Allende visita l’Unione Sovietica e incontra il presidente Leonid Brezhnev, firmando diversi accordi di cooperazione economica e tecnica tra i due Paesi. Le relazioni estere di Santiago del Cile, unitamente alle politiche interne di stampo socialista, indispettiscono non poco Washington che dispone l’embargo verso il Paese. Al boicottaggio economico (sul modello cubano) si aggiungono presto i finanziamenti ai gruppi ostili al governo di Allende.

Il Colpo di Stato

Il golpe del 1973 guidato da Augusto Pinochet ha la benedizione della Casa Bianca, come dimostrano i documenti desecretati cinquant’anni dopo dalla National Security Agency, la madre di tutte le agenzie di intelligence statunitensi. Tra le altre cose, appaiono significative le parole del presidente Richard Nixon che durante una riunione del Consiglio di sicurezza dichiara: «Se c’è un modo di rovesciare Allende, è meglio farlo». Washington opta non per un intervento diretto, bensì per la pressione economica, convincendo le principali multinazionali ad abbandonare il Cile e facendo crollare il prezzo del rame, tra i principali prodotti esportati dal Paese. Vengono inoltre promossi scioperi e proteste, a cui si aggiunge il finanziamento a media privati per fomentare disinformazione circa la figura di Allende e il suo governo. Il terreno è fertile per i militari conservatori cileni, guidati da Augusto Pinochet, che la mattina dell’11 settembre 1973 occupano il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico. Nel frattempo, a Santiago, le forze aeree e i carri armati dell’esercito chiudono e bombardano le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio-televisive: l’unica che riesce a non interrompere le trasmissioni è la radio Magallanes del Partito comunista cileno, la quale trasmette al popolo le ultime parole di Allende, barricatosi nel Palacio de La Moneda. «Non mi sento un martire, sono un lottatore sociale che tiene fede al compito che il popolo gli ha dato. Ma stiano sicuri coloro che vogliono far regredire la storia e disconoscere la volontà maggioritaria del Cile; pur non essendo un martire, non retrocederò di un passo», dice alle 8.45. All’interno de La Moneda, al fianco di Allende sono rimasti la sua segretaria, Miria Contrera, lo scrittore Luis Sepúlveda e altri membri della scorta presidenziale.

Ultima foto che ritrae Salvador Allende nel Palacio de La Moneda, 11 settembre 1973.

Alle 9.10, poco prima che le trasmissioni di radio Magallanes si interrompano, Allende si rivolge per l’ultima volta ai suoi concittadini: «Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!». Il presidente conclude il suo discorso con un incitamento a restare fedeli alla propria libertà e a combattere sempre contro le ingiustizie e i tradimenti. A questo punto ordina a tutte le persone presenti di abbandonare il palazzo presidenziale. Verso mezzogiorno i militari ribelli circondano con i carri armati il Palacio de La Moneda e gli aerei militari iniziarono a bombardarlo. È la fine di Allende e della vía cilena al socialismo.

La feroce repressione

Concluso il golpe, Augusto Pinochet assume la guida del Cile, sciogliendo subito l’Assemblea Nazionale e bandendo tutti i partiti che avevano fatto parte di Unidad Popular. Seguono molte restrizioni alla libertà individuale dei cittadini: lo Stadio Nazionale di Santiago viene trasformato in un enorme campo di concentramento dove, nel corso dei primi mesi della dittatura, vengono interrogate e torturate migliaia di persone. Moltissime donne sono stuprate dai militari addetti al “campo” e centinaia di cittadini – specie studenti universitari – scompaiono nel nulla, dando inizio al fenomeno dei desaparecidos che durante il regime di Pinochet coinvolge circa 40mila persone. Mentre l’avvento del generale cileno provoca reazioni differenti nei Paesi del Centro e Sud America, gli Stati Uniti di Richard Nixon e Henry Kissinger non esitano a congratularsi con Pinochet, tornando a sostenere economicamente il Cile. Washington garantisce un flusso costante di soldi, personale e «consulenze» per assistere il regime nell’opera repressiva. Decenni dopo, il rapporto “Attività della CIA in Cile” rivelerà che i vertici della polizia segreta cilena (DINA) erano sovvenzionati proprio dall’intelligence statunitense. Nel 1974 l’allora direttore della CIA, Vernon Walters, incontra Pinochet: qui il dittatore indica come suo braccio destro il colonnello Manuel Contreras, che avrebbe poi diretto molte operazioni, compreso l’attentato all’ex ambasciatore cileno e leader dell’opposizione in esilio, Orlando Letelier, il quale sarà ucciso a Washington con il suo assistente da alcuni agenti della DINA.

Le eliminazioni politiche saranno una costante nei 17 anni del regime di Pinochet, che prende di mira i sostenitori del presidente Allende. Tra questi, figura Victor Jara, uno dei rappresentanti della Nueva Canción Chilena nonché riferimento internazionale nel mondo delle canzoni di protesta. Jara, militante del Partito comunista cileno, trova la morte il 16 settembre 1973 dopo diversi giorni di torture. «Canto / come mi vieni male quando devo cantare la paura! / Paura come quella che vivo / come quella che muoio / paura di vedermi fra tanti / tanti momenti dell’infinito in cui il silenzio e il grido sono le mete di questo canto», compose nel suo ultimo testo poco prima di essere ucciso dal regime.

Aprile 1987, Papa Giovanni Paolo II si reca in Cile e saluta la folla insieme al dittatore Pinochet [foto del Museo della Memoria e dei Diritti Umani]

Arrivano i “Chicago Boys”

L’America Latina lungo i decenni della guerra fredda è costellata di colpi di stato militari coadiuvati dagli Stati Uniti. Guatemala (1954), Bolivia (1971), El Salvador (1980/1992), Nicaragua (1982/1989), Grenada (1983), Panama (1989): il copione è sempre il medesimo, ovunque si insedia un governo che porta avanti un’agenda economica che preoccupa gli interessi economici e geopolitici americani, da Washington si interviene in maniera diretta oppure indiretta, formando e finanziando frange dell’esercito disposte a intervenire. Anche la brutalità del governo Pinochet non è un unicum, ma trova assonanze in quanto accaduto ad esempio negli stessi anni in Argentina. L’elemento di novità che porta realmente il Cile nella storia è la gestione economica della nazione durante i 17 lunghi anni della dittatura.

I Chicago Boys

Appena preso il potere, Augusto Pinochet contatta l’economista Milton Friedman che invia a Santiago del Cile un gruppo selezionato di suoi studenti, ribattezzati i Chicago Boys, dalla città dove ha sede l’Università dove si sono formati. I Chicago Boys sono ferventi liberisti, propugnatori di un’ideologia del libero mercato senza freni. Sintetizzando al massimo, la loro visione prevede che il ruolo di motore dell’economia venga assunto dal mercato, ritenuto capace di autoregolarsi e che quindi deve essere lasciato libero di agire, riducendo al minimo ogni tipo di interferenza statale. Le aziende devono essere privatizzate, le tasse sui profitti ridotte al minimo, lo stato sociale azzerato. Nei primi anni ’70 la loro visione stava prendendo piede nelle università americane, ma era ancora ampiamente minoritaria. In tutto l’Occidente prevaleva infatti l’orientamento economico keynesiano, proprio dei sistemi socialdemocratici e basato sull’idea che la prosperità della società si basasse sulla presenza forte dello Stato come regolatore dell’economia e come garante di un sistema fiscale progressivo dove i profitti delle aziende e dei cittadini più ricchi dovessero essere altamente tassati per finanziare forti sistemi pensionistici, scolastici, sanitari e, in generale, di protezione sociale.

I Chicago Boys si insediano al ministero delle Finanze del governo Pinochet e iniziano a mettere in pratica, per la prima volta, le teorie neoliberiste. Il primo passo è l’abbattimento del ruolo statale nell’economia, attraverso lo smantellamento delle imprese pubbliche, la denazionalizzazione dei settori strategici e la privatizzazione di numerose imprese. Contemporaneamente viene attuato un programma di netta diminuzione della spesa pubblica, che procede attraverso: l’abolizione dei sussidi statali alle imprese e la riduzione della spesa per l’istruzione e il taglio al sistema pensionistico e sanitario. Gli assegni familiari nel 1989 diventano il 28% di quelli del 1970 e i bilanci per l’istruzione, la sanità e l’alloggio diminuiscono in media di oltre il 20%. Le erogazioni sociali dello stato assumono la forma di prestiti, che i cittadini devono restituire attraverso prelievi forzosi in busta paga, in una misura pari al 20% della retribuzione. Le risorse così raccolte vengono affidate alla gestione di fondi d’investimento privati. A tutto questo si accompagna un generale processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, dei capitali e dei prezzi, oltre che la soppressione delle attività sindacali promossa dalla giunta militare. Viene inoltre facilitato il rimpatrio dei profitti delle multinazionali e delle imprese straniere, in modo da attrarne gli investimenti.

Il “miracolo” economico cileno

Negli anni successivi i risultati raggiunti dalle politiche neoliberiste in Cile vengono glorificati. E d’altra parte le lodi giungono da componenti della medesima corrente di pensiero, nel frattempo partita alla conquista del mondo. Nel 1979 Margaret Thatcher diventa primo ministro del Regno Unito e adotta le medesime politiche neoliberiste, lo stesso avviene negli Stati Uniti a partire dal 1981, quando diviene presidente Ronald Reagan. In Cile, i Chicago Boys riescono a stabilizzare l’inflazione (passata dal 60% del 1973 all’8.9% del 1981), a diminuire fortemente il debito pubblico e a portare una netta crescita del prodotto interno lordo (PIL) che per tutti gli anni di Pinochet si mantiene ad un tasso di crescita medio del 5 – 6% annuo. Certamente un successo, almeno con i criteri con i quali nelle accademie di oggi si misurano i risultati economici di una nazione.

Grattando la superficie della macroeconomia e proiettandosi su quella dell’economia reale i risultati sono però assai diversi. La prima cosa a cui si assiste è l’impoverimento di vasti settori sociali dovuto al crollo dei salari reali (-50%) e l’aumento della disoccupazione, che passa dal 3,1% del 1972 al 28% del 1983. Il risultato è il poderoso aumento del numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà, passate dal 17% del 1970 al 38% nel 1987. Inoltre la diminuzione del debito pubblico dello Stato è solo una partita di giro, perché in misura inversamente proporzionale aumenta a dismisura l’indebitamente privato (quello fatto dai cittadini per permettersi i consumi) che nel 1982 rappresenta il 62% del debito complessivo, rispetto al 16% del 1973. Insomma, il “miracolo economico cileno” lascia sul terreno milioni di poveri.

“Il Cile è stata la culla del neoliberismo, dovrà diventarne anche la tomba”

L’attuale presidente del Cile, Gabriel Boric, tiene una copia del giornale francese L’Humanité che titola “La vittoria dei figli di Allende”

Privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica e delle tasse sui profitti, controllo dell’inflazione: fin troppo facile rileggere gli obiettivi dei Chicago Boys nel Cile di cinquant’anni fa e trovarvi l’influenza delle teorie neoliberiste nell’ordinamento vigente oggi in tutto l’Occidente, specialmente in quelle che sono le linee guida per gli Stati membri dettate da Bruxelles. Si potrebbe dire che l’ideologia economica messa in pratica per la prima volta durante la sanguinaria dittatura cilena ora domini incontrastata. La realtà è al solito più complessa e i cicli della storia compiono alcune volte tragitti sorprendenti. Nel 2022 in Cile si è insediato come nuovo presidente il trentacinquenne Gabriel Boric, ex studente con una storia di militante nei movimenti sociali del Paese andino. Durante il suo discorso d’insediamento, il 22 marzo, Boric cita le parole più forti dell’ultimo discorso di Salvador Allende, quelle che – in un sussulto di speranza – annunciavano che altri dopo di lui avrebbero ripreso il cammino del Cile sulla strada della giustizia sociale. «Come Salvador Allende aveva predetto quasi cinquant’anni fa, siamo ancora una volta connazionali che aprono le grandi strade attraverso le quali può passare l’uomo libero, l’uomo e la donna liberi, per costruire una società migliore», afferma il giovane studente votato come nuovo presidente, e poi scandisce il suo proposito: «Il Cile è stata la culla del neoliberismo, ora dovrà diventare la sua tomba», e per cominciare annuncia la nazionalizzazione delle riserve di Litio, elemento chiave per l’economia del nuovo millennio, di cui il Cile è ricco. Servirà ancora tempo per capire se sarà così, ma ancora una volta il Cile è un laboratorio per una nuova svolta possibile nelle politiche economiche dominanti.

[di Andrea Legni e Salvatore Toscano]

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