martedì 5 Novembre 2024

Magrezza in passerella: nella Moda tutto cambia, tranne i modelli estetici (purtroppo)

Le Fashion Week sono quei momenti dell’anno in cui le case di moda propongono al pubblico le nuove collezioni; degli spettacoli a tutti gli effetti, in cui si cerca di impressionare addetti ai lavori e appassionati con nuovi abiti, di stupire con creazioni ai limiti del mettibile (ma che dovrebbero far riflettere sui temi più disparati), far sognare con capi da mille e una notte. L’onda di creatività estrema, però, termina nel momento in cui si devono scegliere modelle e modelli che dovranno camminare sulla passerella per interpretare le collezioni: nonostante tutto, l’estetica dominante è ancora quella della magrezza. Uomini e donne dalle fisicità molto molto simili e molto molto magre. Filiformi, oblunghe, senza troppe curve e con molti spigoli. Niente di nuovo, in effetti; eppure, dopo un paio di anni in cui la parola “inclusività” ha fatto tendenza e portato in passerella corpi ed età disparate, facendoci credere a una moda aperta e illuminata, ritornare ai vecchi modelli è stata una pessima inversione di tendenza. Che dimostra, ancora una volta, come sia più comodo ritornare nella propria zona di comfort, invece che mettersi in gioco ed evolvere, sperimentando.

Nonostante qualche taglia 42 presente nelle sfilate di Londra e New York, a Milano e Parigi la magrezza è tornata a fare da padrone, con un fallimento totale del tentativo di dare spazio a corpi diversi in passerella. Secondo i dati raccolti da Vogue Business nella stagione precedente, “dei 9.137 outfit svelati nel corso di 219 sfilate a New York, Londra, Milano e Parigi, il 95,6% è stato presentato da modelle molto magre (taglie 32-36); mentre solo lo 0,6% riguarda le modelle plus size (dalla taglia 44 in su) e il 3,8% da modelle con una taglia compresa tra la 38 e la 42”.

Le misure introdotte qualche anno fa, come quella che prevede un certificato medico obbligatorio per le modelle, o la carta firmata dai grandi gruppi Kering e LVMH per eliminare dai casting la taglia 32, sono servite a poco. Anzi, a niente. Le richieste di entrare in taglie così piccole, al limite dell’umano, proseguono e costringono ancora molte donne (e uomini, dove siamo passati da una 52 ad una 48 per gli abiti da sfilata) ad attenersi a certi canoni per non perdere i lavori. Le scuse adottate per proseguire in questa direzione sono svariate, dalla facilità di produzione per corpi sottili e piatti (che rappresentano, comunque, una minoranza) fino alla ricerca di un genere neutro, nel quale tutti si possano sentire rappresentati. Bugie di comodo. 

Dalle modelle casalinghe ai banchi di scuola

In realtà il passato ci racconta un’altra storia, fatta di modelli differenti. Un passo indietro nell’Europa del XIV secolo, ci porta a casa del Sig. Worth, primo stilista considerato il padre dell’alta moda, il quale chiese a sua moglie di “indossare” i capi da lui disegnati. Fino ad allora gli abiti erano presentati sui manichini, in un primo momento su quelli piccoli, per far vedere l’abito “in scala”, poi su quelli “a misura”Ma è con le house modelche ufficialmente Worth dà inizio a questa pratica comune, che da allora fu adottata da tutte le case di moda parigine, dando il via a quella che è diventata una fortunata professione per molte. Il dato interessante era che allora non esistevano requisiti di misurazione standard e la maggior parte dei designer utilizzava donne di taglie diverse per dimostrare la varietà dei loro modelli. Una scelta talmente sensata che fu abbandonata nel corso degli anni.

Dalle prime top model deli anni 40, Bettina Graziani, Barbara Goalen e Lisa Fonssagrives, fino agli anni 2000, abbiamo visto alternarsi in passerella e sulle riviste le fisicità più disparate, con alternarsi di esempi più androgini e maschili a corpi più sinuosi e femminili. Dalle super top degli anni 90, da Cindy Crawford a Naomi Campbell, da Linda Evangelista a Claudia Schiffer, iconiche, incredibili, ma tutto sommato umane, fino alle fisicità non così umane e soprattutto non così in salute, delle modelle in voga negli anni 2000. Anche in quegli anni il British Fashion Council fece firmare ai brand un contratto che impediva di usare modelle di età inferiore ai 16 anni o che sembravano avere un disturbo alimentare. Questo perché, nel tempo, si sono verificati numerosi casi di modelle affette da anoressia che molto spesso hanno portato anche alla morte. Nel tempo, però, sono stati standardizzati dei requisiti di altezza e peso per le passerelle, ed è forse questo che ha portato a un’uniformità pericolosa nella scelta e nella proposta di determinati “modelli”. Modelli che, proprio come dice la parola, diventano esempi di riferimento per moltissime persone, in particolare giovani e adolescenti… non senza provocare danni.

Viene spontaneo chiedersi: davvero gli abiti stanno bene o vengono presentati meglio solo indosso a delle figure oblunghe e dalle proporzioni spesso lontane dalla media della popolazione mondiale? Sembra di sì e, a perpetrare questa convinzione, ci sono gli insegnamenti fatti sui banchi di quelle scuole, costosissime, dalle quali sembra obbligatorio passare per intraprendere questa carriera. 

Ebbene sì, nel disegno del figurino di moda, le proporzioni del corpo umano non sono quelle reali: il corpo umano è proporzionale a 7 teste e mezzo, cioè l’altezza di una persona è uguale all’altezza della sua testa moltiplicata per 7,5; per disegnare un figurino di teste se ne usano nove, anche il nove e mezzo: la figura, così disegnata, è più slanciata e permette di vedere meglio i dettagli del capo (dicono). Quel che succede è che, disegnando in questo modo, l’occhio si abitua a vedere queste proporzioni; le stesse che poi si vanno a ricercare quando si deve scegliere il modello o la modella che dovrà indossare i capi in passerella.

Inclusività a tempo determinato

Nelle stagioni passate, sull’onda dei movimenti per l’inclusione di taglie anche più “umane”, tutti hanno sfoggiato esemplari più o meno curvy durante le sfilate. Curvilinee, plus size, in là con gli anni, con i capelli bianchi; le case di moda hanno abbracciato le donne, quelle vere, per democratizzare la moda. Applausi. Tutti a parlarne bene, di questo gesto fatto più per facciata che per convinzione. Anche perché, a un paio di fashion week di distanza, sono tornati tutti con modelle più oblunghe e magre, ricalcando gli standard già visti. A testimonianza che la Moda sostanzialmente non cambierà mai sul serio.

Perché ci vuole coraggio a uscire fuori da certi schemi. Ci vuole coraggio a lasciare la via segnata da altri e venduta come quella giusta perché così si è sempre fatto e così si fa. Ci vuole coraggio a fare un campionario di un’altra taglia. Ci vuole coraggio ad assumersi la propria responsabilità sociale, come designer, e non limitarsi a rispondere È la moda, baby. O così o fuori”

[di Marina Savarese]

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