martedì 3 Dicembre 2024

Nobel per la Pace: breve storia di un premio finito spesso in mani sbagliate

L’Accademia svedese ha assegnato il premio Nobel per la Pace 2023 all’attivista iraniana per i diritti umani Narges Mohammadi, 55 anni, già condannata a otto anni e due mesi di reclusione, due anni di esilio e 74 frustate per il reato di “fondazione di gruppo illegale”. Un premio sul quale, una volta tanto, non vi è troppo da discutere: in Iran vi è senza dubbio una repressione brutale, dove si finisce a lungo in carcere per reati di opinione come la blasfemia, dove ogni dissenso è spezzato sul nascere, dove se si è donne si può essere brutalmente picchiate dalla polizia perché si indossa male il velo. Tuttavia il Nobel per la Pace rimane un premio controverso e ben poco obiettivo: sia perché è spesso utilizzato dall’Occidente per fini geopolitici (capita che i premiati siano oppositori perseguitati da governi nemici, ma non succede mai che siano perseguitati da governi occidentali o amici, e da questo punto di vista l’edizione 2023 non fa eccezione), sia perché talvolta attribuito a personaggi per molti non meritori, come l’ex presidente statunitense Barack Obama.

Il premio fu istituito per volontà di Alfred Nobel, personalità eclettica, filantropo ed imprenditore di successo, inventore della dinamite. Nel proprio lascito testamentario decretò che la sua eredità fosse “distribuita annualmente come premi per coloro che, durante gli anni precedenti, abbiano conferito grandi benefici all’umanità”. Una parte del premio fu da destinarsi “alla persona che abbia fatto di più o il meglio per promuovere l’amicizia tra le nazioni, l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e l’avviamento e l’avanzamento di congressi di pace“.

Si tratta di un riconoscimento assegnato nel rispetto di criteri di merito profondamente occidentali, la cui visione è quindi necessariamente circoscritta e parziale. Da un lato vi sono personalità che indubbiamente spiccano per la loro attività a favore dell’umanità: basti pensare al dottor Mukwege, “l’uomo che aggiusta le donne”, insignito del premio nel 2018 per la lotta contro l’impunità dello stupro di massa come tattica di guerra, portata avanti nella RDC e in molte altre parti del mondo. Allo stesso modo figurano i nomi delle più grandi icone pacifiste del ‘900: Nelson Mandela (1993), Aung San Suu Kyi (1991), Martin Luther King (1964).

Dall’altro è facile notare come vi sia un’impostazione che segue criteri ideologici e politici ben precisi. Per quanto infatti l’operato dei due giornalisti premiati quest’anno sia encomiabile, non figurano tra i candidati soggetti come Edward Snowden o Julian Assange, impegnati anch’essi in attività giornalistiche di inchiesta che hanno scoperto le carte sulle malefatte dei governi occidentali, in particolare statunitensi. Va sottolineato poi come, su più di un centinaio di premi assegnati dal 1901, siano solamente 18 le donne insignite.

Proprio perché determinato anche da criteri geopolitici specifici, il premio assegnato a Ressa e Muratov riecheggia quelli andati ad Andrei Sakharov e Lech Wałęsa, fondatore di Solidarność, rispettivamente nel 1975 e nel 1983. Si tratta infatti di giornalisti dissidenti che, oggi come allora, contestano l’operato del massimo nemico dell’occidente, ovvero la Russia (l’Unione Sovietica negli anni ’80).

In più di un’occasione, inoltre, i criteri di assegnazione sono risultati quantomeno discutibili. Basti pensare all’edizione del 2019, che ha visto vincitore Abiy Ahmed Ali, politico etiope premiato “per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale”, che da inizio 2020 porta avanti una sanguinosa guerra che vede massacrati centinaia di contadini nella contesa regione del Tigrè.

Nel 2009 il premio viene assegnato al neoinsediato presidente degli Stati Uniti Barack Obama, “per il suo straordinario sforzo per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione per le persone” (Obama era in carica da nemmeno un anno). Ironicamente, Obama sarà il presidente che per primo formalizzerà la “guerra al terrorismo” come mai nessun suo predecessore aveva fatto. La guerra coi droni portata avanti dalla sua amministrazione mieté nel continente africano centinaia di morti, scelti come target sulla base di criteri per lo più meramente suppositivi. Diversamente da quanto accaduto dalle amministrazioni precedenti, tuttavia, Obama scampò alla gogna mediatica grazie alle abili manovre del suo team di comunicazione.

Per quanto in alcuni casi i meriti di coloro che ricevono il premio siano incontestabili, le assegnazioni riflettono un contesto culturale preciso e circostanze storiche e geopolitiche determinate. È bene tenere alla mente questi criteri per non conferire alle personalità premiate termini di assolutezza e contestualizzarle all’interno di un’epoca specifica.

[di Valeria Casolaro]

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