Tra il 2011 e il 2020, la spesa militare globale è aumentata del 9,3%, raggiungendo nel 2022 la cifra record di 2,24mila miliardi di dollari. All’interno del settore continua a crescere il commercio delle armi, saldamente trainato dagli Stati Uniti: il 38,6% degli armamenti sul mercato ha infatti livrea a stelle e strisce. Al sesto posto – dopo Russia, Francia, Cina e Germania – troviamo l’Italia, le cui esportazioni coprono il 3,1% della quota mondiale, per un valore di circa 4,6 miliardi di euro. Stando ai dati del 2021, il materiale bellico nostrano finisce principalmente in Qatar, Stati Uniti e Francia. Interessante il dato relativo a Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, rispettivamente in dodicesima e quattordicesima posizione per una spesa di 56 e 47 milioni di euro. Cifre destinate a lievitare visto il ritiro, da parte dell’Italia, delle limitazioni all’export di materiale militare verso i due Paesi del Golfo.
Intorno al commercio delle armi si è più volte innescato un certo dibattito morale. È etico per una democrazia armare i totalitarismi? Come si conciliano la tendenza al profitto e i moti della coscienza? L’Italia ha provato a rispondere con la legge 9 luglio 1990, n.185, che prevede dei criteri etici più volte disattesi dagli esecutivi successivi. Nel nostro Paese è necessaria un’autorizzazione governativa per esportare armi e tecnologie militari. Le licenze sono concesse dal Ministero degli Esteri, sulla base di quanto formulato dalla legge del 1990. Secondo l’articolo 1, comma 5, della norma: “l’esportazione ed il transito di materiali di armamento, nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono vietati quando siano in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali”. Nel comma successivo vengono elencati diversi casi concreti, disponendo il divieto del commercio di armi verso “i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite” (dunque sono esenti gli Stati impegnati nella legittima difesa) […]; “i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, il quale ripudia la guerra sia come strumento di offesa nei confronti degli altri popoli sia come mezzo per la risoluzione di controversie internazionali”. Coinvolti dal divieto anche “i Paesi nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite” e gli Stati “i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo”.
Il riavvicinamento a Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita
Durante il Consiglio dei ministri del 31 maggio, il governo Meloni “ha attestato che l’esportazione di bombe e missili verso l’Arabia Saudita non ricade nei divieti di esportazione stabiliti dall’articolo 1, commi 5 e 6, della legge 9 luglio 1990, n. 185, essendo conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Un’interpretazione del diritto che ha fatto discutere, sia per lo scenario bellico persistente in Yemen sia per le politiche condotte da Riad. La guerra nel Paese arabo è uno dei tanti conflitti dimenticati dall’Occidente, nonché tra i più sanguinari della storia recente: tra marzo 2015 e settembre 2021, nel Paese si sono registrati in media 10 attacchi aerei al giorno, che hanno complessivamente causato la morte o il ferimento di oltre 18.000 civili. Nel 2014, il movimento ribelle musulmano sciita Houthi prese il controllo della capitale costringendo il presidente Abdrabbuh Mansour Hadi all’esilio; qualche mese dopo, nel marzo 2015, il conflitto si internazionalizzò attraverso la partecipazione della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, che si schierò a favore del presidente Hadi bollando le forze Houthi come dei terroristi sostenuti dall’Iran.
Nell’estate del 2019, il governo Conte I decise di sospendere la vendita di bombe aeree e missili, oltre alla loro componentistica, ad Abu Dhabi e Riad a causa dei crimini di guerra commessi contro la popolazione civile yemenita. Venne stabilita inoltre la clausola end-user certificate (Euc) rafforzata, che consisteva sostanzialmente in un impegno dei due Paesi a non usare le armi (esclusi missili e bombe d’aereo, già colpite dalla sospensione) acquistate dall’Italia nel conflitto in Yemen. Nel 2021, il Conte II decise di revocare definitivamente le autorizzazioni sospese due anni prima, cancellando diverse licenze concesse dal governo Renzi all’Arabia Saudita nel 2016. Tra queste, figurava la licenza MAE 45560 relativa a quasi 20mila bombe aeree della serie MK per un valore di oltre 411 milioni di euro. Nell’estate del 2021, il governo Draghi decise di liminare la clausola end-user certificate (Euc) rafforzata, lasciando in vigore il divieto di esportazione di bombe aeree e missili. Una decisione facilmente ricollegabile al tentativo di riallacciare i rapporti con i ricchi Paesi del Golfo che si erano deteriorati nei mesi precedenti, complice la stretta commerciale. Si pensi allo sfratto disposto il 2 luglio 2021 dagli Emirati Arabi nei confronti dei militari italiani di tanza ad Al Minhad, in una base utilizzata dal 2003 per le missioni in Afghanistan, Kuwait e Iraq. Due anni dopo, il governo Meloni ha raccolto l’eredità dell’Agenda Draghi e ha revocato tutte le limitazioni all’export di armi prima verso Abu Dhabi e poi verso Riad. Dopo aver elogiato l’Arabia Saudita “per aver portato avanti una intensa attività diplomatica a sostegno della mediazione delle Nazioni Unite” ed aver al contempo “agito anche sul fronte economico e dell’assistenza umanitaria in maniera determinante”, il governo Meloni ha parlato di una “mutata situazione del conflitto”. Il riferimento è ai tentativi di dialogo verificatisi lo scorso aprile tra le parti, quando, complice l’avvicinamento diplomatico tra Riad e Teheran su mediazione di Pechino, una delegazione saudita ha incontrato i ribelli Houthi nella capitale yemenita Sana’a. Ad oggi però i negoziati versano in una fase di stallo e le varie fazioni continuano a combattere, allontanando la pace.
Dal momento che il principio di autodeterminazione è attualmente limitato ai casi di dominazione coloniale, occupazione straniera e subordinazione a un regime razzista, l’azione degli Houthi in Yemen è stata considerata dalla comunità internazionale in termini di insurrezione, uno status che gode di minori tutele rispetto ai movimenti di liberazione nazionale (MLN), catalizzatori degli interessi dei popoli che chiedono l’autodeterminazione. Questa distinzione, unitamente alla “questione terrorismo”, ha in qualche modo legittimato agli occhi della comunità internazionale la spedizione di nove Paesi, guidati dall’Arabia Saudita, in Yemen.
Se è vero dunque che la clausola prevista dall’articolo 1, comma 6, lettera a della legge 9 luglio 1990, n. 185 è bypassabile, è altrettanto vero che su Riad pesino delle risoluzioni importanti per il rispetto della norma italiana. Secondo la lettera d dello stesso comma, l’esportazione e il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate ad esempio dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa. Già nell’estate del 2021, mentre il governo Draghi allentava le limitazioni verso i Paesi del Golfo, il Parlamento europeo approvò una risoluzione in cui condannava l’Arabia Saudita per l’uso della pena di morte e “per il modello di dure pene detentive”, esortandola a rispettare gli obblighi derivanti dalla partecipazione alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e alla Convenzione contro la tortura. Nel 2022, Riad ha realizzato 196 esecuzioni, confermandosi come secondo Paese in questa triste classifica, dietro soltanto all’Iran che l’anno scorso ha condannato a morte 576 persone.
L’addestramento in Somalia e i bambini soldato
In un recente comunicato, l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD) ha denunciato la posizione dell’Italia, che “continua ad addestrare l’Esercito e la Polizia Nazionale della Somalia, nonostante – secondo le reiterate denunce del Segretario Generale ONU – entrambe le predette forze di sicurezza utilizzino i minorenni. Sempre secondo l’ONU, Esercito e Polizia si sono resi responsabili anche di stupri, uccisioni di bambini, distruzione di scuole e/o ospedali”. Di recente, il governo italiano ha prorogato diverse missioni militari all’estero, tra cui il supporto a Mogadiscio. Ad oggi, circa 700 soldati italiani sono impegnati nella missione europea EUTM Somalia. A questi si aggiungono duecento marinai a bordo di una nave che pattuglia le acque antistanti il Paese con l’obiettivo di contrastare la pirateria e 115 carabinieri, impegnati nella Missione Bilaterale di Addestramento delle Forze di Polizia somale e gibutiane (MIADIT). “Con un Paese ricco solo di armi abbiamo stipulato un Accordo di cooperazione militare senza porre alcuna condizione nonostante il Paese sia in stato di conflitto da decenni. L’Italia dovrebbe operare in una prospettiva di pacificazione e non per un’alimentazione ulteriore dell’instabilità”, conclude l’IRIAD, invitando i parlamentari a subordinare l’autorizzazione delle missioni in Somalia “all’effettivo rispetto delle libertà fondamentali e soprattutto alla fine del fenomeno dei bambini soldato”. Nel 2006, l’ONU accusò l’Italia di fornire «materiale militare al governo Federale di Transizione somalo (TFG), violando l’embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza».
Il giro di soldi che muove il settore delle armi in Italia
L’azienda MBDA Italia si è posizionata sul podio delle imprese esportatrici, coprendo il 5,1% delle vendite totali. Al secondo posto la Iveco Defence Vehicles (23%), mentre Leonardo S.P.A. ha confermato la sua ascesa. L’azienda romana, partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze al 30,2%, ha esportato il 43% dei materiali di armamento, ricambi e tecnologie immesse dall’Italia sul mercato. Leonardo ha chiuso il bilancio del 2022 con un utile netto di 932 milioni di euro. Si tratta di un aumento del 58,5% rispetto all’anno precedente. In crescita anche i ricavi (+4,8%), che hanno toccato quota 14,7 miliardi di euro. Lo sprint è stato favorito dalla crescente incertezza geopolitica che ha prestato il fianco a nuove intese raggiunte con diversi clienti nel mondo. A giugno 2022, la sola Polonia ha staccato un assegno da 1,4 miliardi di euro per gli elicotteri multimissione AW149. Qualche mese dopo, Leonardo ha chiuso un contratto da 690 milioni di euro con il Dipartimento della Difesa Nazionale Canadese per il programma di ammodernamento ed espansione della flotta di elicotteri AW101/CH-149 SAR Cormorant.
Di recente, l’azienda romana è finita – insieme a Fincantieri e l’ex presidente del Consiglio Massimo d’Alema – al centro delle indagini per un pacchetto di armi da vendere alla Colombia. Si trattava di un’operazione da 4 miliardi di euro, saltata a causa della “mancata intesa sull’ulteriore distribuzione della somma tra le singole persone fisiche della parte italiana e di quella colombiana”, a cui spettavano due “rimborsi” da 40 milioni di euro. Nel registro degli indagati della Procura di Napoli sono finiti l’ex ad di Leonardo Alessandro Profumo, l’ex direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo, Massimo d’Alema e altri cinque “mediatori commerciali”. La trattativa avrebbe dovuto comprendere la vendita di corvette e piccoli sommergibili, oltre all’allestimento di cantieri navali di Fincantieri e aerei M346 di Leonardo. Una doppia violazione del diritto italiano: l’azienda guidata attualmente dall’ex ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani è partecipata dallo Stato, a cui spetta la prerogativa in materia di operazioni commerciali con l’estero. In più, la presenza di mediatori nella compravendita di armi viola la legge n. 185 del 9 luglio 1990.
L’interesse italiano per il settore bellico viene alimentato anche da Bruxelles. Nel 2021, l’Unione europea ha messo a disposizione degli Stati membri 1,2 miliardi di euro, appartenenti al Fondo europeo per la difesa (EDF). Con i suoi 156 associati ai progetti, tra imprese, startup, università e centri di ricerca, l’Italia è risultata seconda soltanto alla Francia per partecipazione agli investimenti comunitari. L’università di Firenze è stata scelta per condurre delle ricerche nell’ambito del programma Neumann, incassando un milione di euro. Al progetto intitolato al matematico John von Neumann collabora anche Leonardo, a cui è stato assegnato il coordinamento di Arturo, un investimento triennale da 19 milioni di euro finanziato dall’UE per sviluppare nuove capacità nel settore dei radar.
Il colosso italiano dell’industria della difesa ha creato negli anni una rete relazionale che conta più di 90 università e centri di ricerca, impegnati in circa 400 progetti. Leonardo è in buona compagnia: l’ateneo fiorentino ha fatto sapere che nell’attività di studio è coinvolto «il gruppo di ricerca HTC group del dipartimento di ingegneria industriale, che collabora da oltre vent’anni con la società Ge Avio srl sui temi dello scambio termico e della combustione nei motori aeronautici». L’azienda torinese intrattiene ottime relazioni anche con il politecnico di Bari, a cui sono stati destinati 240mila euro dell’EDF per «aumentare il know-how nell’ambito della generazione efficiente di energia elettrica a bordo di velivoli». I finanziamenti del settore bellico alle università sollevano non pochi dubbi di natura etica. Negli anni si sono susseguiti svariati appelli per la smilitarizzazione dei luoghi del sapere, in modo da allontanarli dalla logica dell’industria delle armi per spingerli invece verso partenariati etici e sostenibili. Dalle università il moto travolgerebbe i vertici decisionali della comunità politica, portandoli innanzitutto a rispettare la legge 9 luglio 1990, n. 185. Il passo successivo sarebbe poi il suo ampliamento, così da arrivare al ripudio di quelle violazioni sistematiche dei diritti dell’uomo che la vendita di armi contribuisce a perpetuare.
[di Salvatore Toscano]
secondo me c’è un errore di calcolo il 3.11 per cento di 2,24 mila miliardi di dollari è di 60 miliardi di dollari non può essere solo 4,6 miliardi di euro