lunedì 4 Novembre 2024

Gli australiani hanno votato per continuare a negare i diritti agli aborigeni

Alla fine ha vinto il ‘no’. Alla domanda “approva lei di modificare la Costituzione così da riconoscere al suo interno le popolazioni aborigene?”, la maggioranza degli australiani ha risposto in maniera negativa. E così il referendum indetto nel Paese per legittimare – per la prima volta nella storia nazionale – sostanziali diritti per le popolazioni indigene, è diventato carta straccia. Un esito ancora più catastrofico tenuto conto che il sì, oltre a garantire per legge il riconoscimento formale delle comunità indigene in quanto ‘First Nations people’ (prime popolazioni presenti sul territorio), avrebbe comportato l’istituzione della ‘Voce degli Aborigeni e degli abitanti delle isole dello Stretto di Torres’, un organo consultivo indipendente, composto da rappresentanti scelti dalle comunità indigene, che sarebbe stato autorizzato a fornire pareri non vincolanti al Parlamento e all’esecutivo sulle tematiche relative alle popolazioni native.

D’altronde, affidare (in parte) al voto popolare la decisione di affondare o meno certi diritti – come prevede la legge australiana, per cui le modifiche costituzionali necessitano di un referendum – significa correre il rischio che, alla fine, a subirne le conseguenze siano le stesse minoranze. Senza che, tra l’altro, il Governo possa farci niente. Tuttavia, nonostante l’esecutivo sia tenuto a rispettare i risultati, non sono mancate le polemiche. Secondo gli aborigeni, per esempio, gli elettori non sono stati adeguatamente informati su come e cosa avrebbero dovuto votare e sarebbero stati invece ‘storditi’ dalle notizie false e fuorvianti diffuse sui social media, studiate per alimentare razzismo e ostilità.

Ma i nativi ci avevano sperato comunque, soprattutto perché l’ultima volta che gli australiani si erano riuniti alle urne referendarie sui temi riguardanti le popolazioni native, la questione si era risolta in maniera diversa. Nel 1967, infatti, il 90.77% dei votanti scelse di abolire dalla Costituzione la frase “diverse dagli aborigeni di qualsiasi Stato” e di cancellare l’intera sezione 127, che li voleva esclusi dal conteggio formale della popolazione australiana. Una vittoria che all’epoca fu interpretata come un cambio di rotta, ma che a distanza di anni non ha portato i risultati sperati: ora come allora la possibilità di vedersi ufficialmente menzionati nella Costituzione è sempre più urgente e necessaria. Basti pensare che in media in Australia l’aspettativa di vita degli indigeni è di otto anni più bassa rispetto a quella degli altri, e che fra i primi si registra il doppio dei suicidi rispetto alla media nazionale. Le cause sono diverse: c’entrano salute, istruzione e mortalità infantile, ma c’entrano soprattutto i soprusi e le privazioni a cui sono sottoposti.

Dei 983.700 indigeni che abitano l’Australia (cioè il 3,8% della popolazione totale al 30 giugno 2021), discendenti di quelli che giunsero nel continente 45mila anni fa e oggi divisi in circa 500 diversi popoli, una buona parte vive in condizioni di disagio. Se infatti prima dell’invasione coloniale le comunità native abitavano tutto il continente, vivendo con i ‘frutti’ della terra e del mare, oggi molti di quei terreni non gli appartengono più. Survival International, organizzazione per i diritti umani degli indigeni, dice che «alcuni lavorano come braccianti in quelle stesse fattorie che hanno occupato le loro terre ancestrali» e «vivono nelle periferie degradate delle città». Ma per fortuna altri ancora, soprattutto nella metà settentrionale del continente, «rimangono radicati nelle loro terre».

Infatti, nonostante la politica remi spesso contro la loro conservazione in nome del progresso e dello sviluppo (lo scorso agosto il Governo dell’Australia Occidentale ha cancellato la legge che prevedeva il controllo aborigeno sui progetti di sfruttamento ambientale e delle risorse all’interno dei territori appartenenti al loro patrimonio culturale), alimentando ondate di “violenza genocida”, i popoli indigeni sfidano ancora i presupposti fondamentali della globalizzazione.

«Non accettano l’ipotesi che l’umanità tragga beneficio dalla costruzione di una cultura mondiale del consumismo e sono perfettamente consapevoli, grazie alla loro tragica esperienza degli ultimi 500 anni, che le società consumistiche crescono e prosperano a spese di altri popoli e dell’ambiente», citando le parole dell’esperta delle Nazioni Unite Erica-Irene Daes.

Una lucidità e una coscienza politica che l’ennesimo rifiuto non potrà indebolire, e che anzi spingerà le comunità a continuare a rivendicare il diritto al riconoscimento del territorio, all’autonomia e all’autodeterminazione.

[di Gloria Ferrari]

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