giovedì 21 Novembre 2024

Logistica inversa: cosa succede a tutti gli acquisti che restituiamo

Negli ultimi anni l’online è diventato uno dei principali mercati per la vendita al dettaglio di tutto il mondo. I motivi sono diversi: c’entra per esempio la pandemia da Coronavirus, che ci ha costretti in casa per molto tempo e c’entra il rapido aumento delle persone che hanno accesso a Internet – se ne contano oltre cinque miliardi. E se da una parte crescono gli acquisti online – che si stima nel 2022 abbiano superato i 5 trilioni di dollari – dall’altra a crescere sono anche gli oggetti e i capi di abbigliamento che, una volta ricevuti, rispediamo al mittente. Un meccanismo, quello della logistica inversa, che genera 5 miliardi di chili di rifiuti all’anno, ma a cui gli e-commerce fanno fatica a rinunciare perché considerato un punto di forza.

Restituire un acquisto, spesso senza dover affrontare costi aggiuntivi, è una pratica facile e veloce, che in molti casi spinge anche gli utenti più incerti a comprare. L’altra faccia della medaglia è però meno piacevole. È molto difficile infatti che un articolo, una volta rispedito indietro, venga rimesso a nuovo e posizionato al suo posto di partenza, per essere nuovamente venduto. È sufficiente che l’involucro sia danneggiato, o il sigillo di garanzia rotto per condannare quella merce alla discarica.

Se infatti in un negozio fisico un oggetto restituito finisce per essere reimballato e riposto negli scaffali, su internet le dinamiche sono totalmente diverse. Principalmente per una questione economica. Un pacco tornato al mittente è per il produttore un esborso di denaro.

Per arrivare in magazzino, l’oggetto deve infatti prima di tutto essere ritirato da un corriere, con conseguenti costi per il lavoro dello stesso e il trasporto. Poi, una volta giunto a destinazione, il prodotto va qualitativamente controllato ed eventualmente riconfezionato, rietichettato e rimesso in vendita. È probabile però che non tutte le aziende dispongano, qualora ce ne fossero le condizioni, di strumentazioni adeguate a portare a termine tutti questi processi. Non è detto, per esempio, che l’inscatolamento avvenga in sede, e che l’etichettatura sia stampata dallo stesso negozio. Motivi che, sommati insieme, spingono il venditore a destinare la merce in discarica, soprattutto se l’oggetto è di basso valore – visto che rimetterlo sugli scaffali significherebbe spendere più di quanto costerebbe produrlo da zero. In questo modo, molti oggetti finiscono per essere buttati via prima ancora di essere utilizzati. Uno spreco, soprattutto visto che le restituzioni non avvengono solo se la merce è difettosa: ogni anno i clienti americani spediscono indietro circa 3,5 miliardi di prodotti, di cui solo il 20% è effettivamente mal funzionante. L’impatto complessivo della catena è quindi devastante, in particolare dal punto di vista ambientale. Un danno che in un momento storico come questo, concentrato all’abbattimento delle emissioni e alla riduzione dello sperpero delle risorse, non possiamo permetterci.

Per limitare il numero di resi, i giganti dell’online stanno provando a sperimentare soluzioni diverse. Alcuni hanno previsto per la restituzione il pagamento di una piccola somma di denaro, e altri hanno diminuito i tempi entro cui poter rispedire il pacco al mittente. Certi rivenditori hanno invece deciso di effettuare il rimborso di determinati acquisti senza il bisogno di rispedire la merce indietro e altri ancora hanno introdotto l’obbligo per l’acquirente di compilare un questionario che indaghi il motivo del reso e che mostri al tempo stesso il suo impatto ambientale, così da scoraggiare la procedura.

Sempre più aziende stanno invece optando per scelte più tecnologiche, inserendo nei propri siti la possibilità di provare virtualmente un capo o un oggetto (come nel caso della montatura di un paio di occhiali). Invece altre richiedono al cliente di spedirgli una foto dettagliata dell’oggetto danneggiato – se lo è -, così da provare a ripararlo a distanza (offrendo in questo caso un rimborso parziale o facendosi carico della riparazione se la merce è gravemente compromessa).

Soluzioni che di certo possono, se efficacemente impiegate, arginare il problema, ma non risolverlo. La difficoltà più grande da superare è infatti l’atteggiamento dell’acquirente e del produttore. Il primo, dal click facile, compra spesso articoli di cui non necessita – e per cui si pente – oppure ordina due paia di scarpe dello stesso modello così da avere più possibilità di azzeccare la misura giusta (tanto l’altra si può restituire).

Il secondo, invece, soprattutto se specializzato in prodotti tecnologici, produce senza pensare alla riparazione, inserendo nei propri oggetti elementi difficili o troppo costosi da sistemare, e con un’aspettativa di vita già decisamente bassa in partenza.

Pratiche che andrebbero scoraggiate promuovendo piuttosto il recupero. Come ha fatto la Francia, che ha deciso di incentivare questa buona abitudine con uno sconto. Per ridurre gli sprechi causati soprattutto dall’industria tessile, il Governo ha infatti predisposto un bonus per la riparazione di capi di abbigliamento e scarpe, con lo scopo di educare a un consumo più responsabile e per tentare di ridurre lo spreco.

[di Gloria Ferrari]

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2 Commenti

    • Sì, anche, se adotta pratiche come quelle descritte alla fine dell’articolo. E ne conosco. Come sempre (anche nella diatriba sull’ambiente e il riscaldamento globale) sarebbe credo saggio evitare di farci contagiare dall’estremismo: se certo non possiamo dare tutte le colpe alla gente comune, altrettanto non possiamo considerare tutti dei santi immacolati.

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