Riuscire a raggiungere l’obiettivo di ripristinare 12 milioni di ettari di vegetazione autoctona brasiliana entro il 2030, come stabilito dall’accordo di Parigi sul clima, non sarà un’impresa semplice, soprattutto in assenza di un programma governativo solido che vada in questa direzione. Tuttavia è grazie al prezioso lavoro dei raccoglitori di semi, che hanno scoperto che piantarli al posto degli alberelli rende il processo di rimboschimento più efficiente e solido, che la speranza di arrivare alla meta è ancora viva.
Una tecnica che gli indigeni hanno dimostrato essere la più adatta per aiutare i giovani alberi a sopravvivere alla siccità e sfruttare al meglio lo spazio a disposizione: seminare permette infatti di piantare circa dieci volte più alberi per ettaro rispetto all’utilizzo delle piantine, dimezzando i costi. Gli sforzi dei raccoglitori di semi si stanno concentrando soprattutto nella zona del Cerrado, un territorio di savane e foreste che copre più del 20% del Brasile e una piccola parte di Paraguay e Bolivia e che custodisce specie di flora e fauna introvabili altrove.
È evidente, soprattutto in questo caso, quanto la conservazione dei semi possa fare la differenza in un processo di ripopolamento e risanamento delle terre. Intenzioni che hanno spinto decine di tribù indigene, che vivono nella riserva di Xingu, a fondare la Xingu Seed Network, una rete nata nei primi anni duemila con lo scopo di ripristinare la vegetazione intorno ai fiumi e alle sorgenti, inquinati dal disboscamento e da allevamenti e agricoltura ai confini con la riserva. La perdita di vegetazione e il degrado del territorio sono infatti le minacce più grandi non solo per la terra stessa, ma anche per gli indigeni che la abitano. Tra il 2000 e il 2015 il bioma amazzonico ha perso più di 20 milioni di ettari di terreno e il Cerrado più di 23 milioni. Numeri che hanno reso urgente e necessaria la messa a punto di un piano di riforestazione su larga scala, che ha quindi fatto impennare la domanda di semi di alberi autoctoni in grado di ripristinare gli ecosistemi al loro stato naturale.
Ad oggi la rete, avviata nei primi anni duemila dall’Instituto Socioambiental (ISA) – una ONG – in collaborazione con i leader indigeni dello Xingu, conta quasi 600 raccoglitori e una collezione di più di 200 semi di differenti alberi autoctoni. Oltre a raccogliere e processare tutte le richieste, il suo compito più importante è quello che riguarda la formazione: il gruppo infatti istruisce chi ne fa parte – e non sono solo indigeni – sulle migliori pratiche di raccolta, sul pretrattamento del seme, che spesso va essiccato, e sul modo di identificarlo e conservarlo. Dalla sua fondazione – e fino al 2022 – la Xingu Seed Network ha raccolto 294 tonnellate di semi, contribuendo al ripristino di 7.400 ettari di terreno. Un risultato portato a casa grazie alla collaborazione con altre reti di semina sparse per tutto il Brasile, in grado di garantire ad ogni ecosistema il seme più specifico e adatto e, soprattutto, essenziali per soddisfare l’enorme domanda. Questa arriva principalmente da aziende private, che per legge, se distruggono le foreste, sono tenute a ripiantare un’area equivalente di alberi altrove, e da coltivatori. L’agricoltura infatti è una delle maggiori cause della deforestazione che ha colpito il Brasile nel 2022.
Tuttavia il ripristino delle aree boschive non è sempre facile. Non bastano infatti cura, dedizione e conoscenza a ripopolare una foresta se, dall’altra parte, ostacoli e minacce sono sempre dietro l’angolo. Molte sono infatti le categorie che hanno interesse affinché le terre rimangano spoglie e\o sfruttabili: è il caso, per esempio, dei minatori illegali e dei sostenitori dell’agricoltura intensiva, così come delle grandi multinazionali.
Ma la lotta indigena si sta muovendo su più fronti, e fermarla non sarà affatto facile. Le comunità stanno infatti anche portando avanti programmi incentrati sulla produzione sostenibile delle risorse alimentari originarie del territorio. Contribuendo così: da una parte a proteggere una delle regioni più ricche di biodiversità e culture del mondo, rispettando i tempi naturali dei suoi terreni; dall’altra, al sostentamento economico delle tribù stesse. Nello specifico, i gruppi indigeni – tra cui quelli dei Terena, Kayapó e Kuikuro – si stanno specializzando nella produzione di miele, noci di baru tostate e olio di palma babaçu, prodotti poi venduti al resto del Paese ma generati attraverso sistemi di coltivazione rispettosi e naturali – e che soprattutto portano profitti a chi, di quelle terre, si prende cura da sempre.
[di Gloria Ferrari]