giovedì 21 Novembre 2024

Gli Emirati Arabi si stanno comprando le foreste africane

Ahmed Dalmook al Maktoum, il più giovane della famiglia reale di Dubai, sembra volersi prendere tutta l’Africa. La Blue Carbon, la società che presiede, sta finanziando progetti che, su carta, dovrebbero proteggere le foreste in cambio di crediti di carbonio da rivendere, ma che nel concreto suonano come una delle più grandi operazioni di greenwashing.

Lo sceicco potrà per esempio vantare diritti di conservazione su circa il 20% delle aree verdi dello Zimbabwe e sul 10% della Liberia, ma gli accordi hanno toccato diverse zone del continente: a tal punto che gli Emirati si sono trovati a gestire 60 milioni di acri di foresta africana. Numeri che hanno reso la Blue Carbon una delle più grandi e critiche società di credito di carbonio. Spieghiamo di che si tratta.

Per ridurre l’impatto inquinante del proprio operato, molte aziende e governi di tutto il mondo hanno deciso di compensare le emissioni di carbonio prodotte finanziando altrove progetti puliti, sostenibili. Uno scambio convalidato dall’acquisto di (almeno) un credito di carbonio, che equivale a comprare l’autorizzazione a emettere una tonnellata di anidride carbonica o la quantità equivalente di un diverso gas serra. In pratica, come spiega Irpimedia, «una tonnellata di anidride carbonica (CO2) sprigionata da un giacimento petrolifero in Congo viene pareggiata dalla rimozione della stessa quantità di gas inquinanti grazie, per esempio, all’energia prodotta da un parco solare in India». Un meccanismo che se interpretato – e quindi utilizzato – nel modo sbagliato, come spesso accade, concede all‘azienda la possibilità di continuare ad inquinare senza dover necessariamente cambiare il proprio assetto e\o metodo di lavoro, perché la riduzione delle proprie emissioni è affidata a qualcun altro.

Difatti, nonostante i progetti di credito di carbonio siano stati pensati per sostenere l’indipendenza economica dei Paese in via di sviluppo – i principali soggetti coinvolti – e fornire loro risorse sufficienti a proteggere il territorio, in realtà la cattiva gestione e la scarsa regolamentazione del mercato hanno reso la pratica subdola e dannosa. Da «basato sulla natura», come lo ha definito il Northern Rangelands Trust, che si occupa della protezione del Kenya, il mercato dei crediti di carbonio si è invece rivelato «frammentato e senza un’autorità di controllo, un e-commerce del deep web», detto con le parole di Irpi. Un business di aree protette di cui Survival International si occupa ormai da tempo, e che nella sua ultima campagna-denuncia dal titolo Carbonio insanguinato ha descritto come un’operazione che potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza peraltro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici. E senza alcun beneficio – che era uno fra gli obiettivi principali dell’accordo – per le comunità locali.

Visto che la Carbon Alliance degli Emirati Arabi Uniti ha dichiarato di voler acquistare crediti di carbonio per 450 milioni di dollari entro il 2030, la Blue Carbon non sarà di certo l’unica protagonista degli scambi. Per ora, il suo dominio nel mercato è indiscusso, così come sono innegabili gli interessi dello sceicco per il petrolio e il gas – grandi fonti di ricchezza per la sua famiglia.

D’altronde gli Emirati – che ricordiamolo, ospiteranno la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di quest’anno, presieduta da Ahmed Al Jaber, amministratore delegato del colosso fossile Abu Dhabi national oil company che ha proposto di aumentare gli investimenti nelle fonti fossili di 600 miliardi di dollari all’anno – difficilmente raggiungeranno gli obiettivi climatici prefissati.

Soprattutto tenuto conto che nel 2022 l’utilizzo di combustibili fossili ha generato in tutto il Paese 218,8 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica, con un aumento di oltre il 2% rispetto all’anno precedente e che nello stesso le emissioni pro capite di CO₂ sono fra le più elevate al mondo, con più di 20 tonnellate a testa.

[di Gloria Ferrari]

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