La Regione Veneto, per sette lunghi anni, ha sospeso «per ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria», lo svolgimento dell’indagine epidemiologica atta a valutare le conseguenze che il grave inquinamento da PFAS di una vasta falda acquifera in Veneto – scoperto nel 2013 –, ebbe sui cittadini delle province di Vicenza, Padova e Verona. Ad ammettere che a bloccare la ricerca, per la quale era pronta una convenzione con l’Istituto Superiore di Sanità, fu una questione di costi è stata direttamente l’assessora regionale leghista alla Sanità Manuela Lanzarin, in seguito alle pressioni ricevute dalle associazioni ambientaliste e dalle forze di opposizione. La spesa di cui avrebbe dovuto farsi carico la Regione, che non è stata mai quantificata, avrebbe dovuto concernere le spese di missione per le riunioni, convegni e gruppi di lavoro, subcontratti internazionali, organizzazione di eventi, pubblicazioni, messa a disposizione del software e una borsa di dottorato. E dire che, lo scorso agosto, il Veneto ha approvato il bilancio di previsione 2024-2026 destinando alla Sanità 10 miliardi, mentre la spesa sanitaria nel bilancio di previsione 2017-2019 ammontava a 8,9 miliardi all’anno.
Lo spartiacque di questa intricata vicenda ha avuto luogo lo scorso giugno, nella cornice del processo che vede alla sbarra i dirigenti della Miteni di Trissino – azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica, dichiarata fallita nel 2018 – per quel disastro ambientale. In tale sede Pietro Comba, ex dirigente in pensione di Iss, aveva riferito che nel 2017 svolse con i tecnici della Regione un lavoro atto a porre le basi dello studio epidemiologico, al fine di accertare le possibili correlazioni tra la presenza di Pfas nel sangue e l’insorgenza di tumori. Comba ha ricostruito i fatti affermando che, alla fine, il progetto si arenò, non per decisioni tecniche ma per possibili ragioni politiche. La Regione aveva replicato con una nota ricordando le “numerose indagini epidemiologiche” da essa promosse, “in uno sforzo importante e sinergico anche con le massime autorità in ambito sanitario del Paese, oltre che con i rappresentanti della comunità scientifica”, senza però fare riferimenti specifici allo studio in preparazione nel 2017. Cristina Guarda, di Europa Verde, aveva inoltre effettuato un’interrogazione chiedendo per quale motivo la Regione «non abbia dato attuazione ad almeno tre piani di monitoraggio, nonostante vi fosse una delibera di giunta risalente al 2016». Ed ora, con enorme ritardo (e, forse, con qualche imbarazzo) una risposta è arrivata. «Negli anni a seguire le attività previste nel cronoprogramma dello studio sono state portate avanti dalla Regione Veneto e realizzate con diverse collaborazioni tra le quali quelle con Iss – ha detto l’assessora Lanzarin per giustificarsi –. Ulteriori valutazioni verranno condotte in collaborazione con Iss nell’ottica di trarre elementi utili per la valutazione di queste sostanze emergenti». L’assessora non ha però puntualizzato che la spinta per avviare lo studio sia stata data, lo scorso settembre, proprio dall’Iss, attraverso l’incarico affidato alla società regionale Azienda Zero.
Secondo gli studi le sostanze in questione, oltre ad essere estremamente persistenti, alterano il sistema ormonale portando a diverse patologie, anche letali. Di particolare rilievo, l’aumentato rischio di malattie tiroidee, tumore a rene e testicolo (+30%), di cardiopatia ischemica (+21%), morbo di Alzheimer (+14%) e malattie correlate al diabete (+25%). Dal 2013, anno in cui venne scoperto l’inquinamento da Pfas nelle province venete, che avrebbe coinvolto circa 350mila cittadini, un grande peso in questa battaglia lo ha assunto l’impegno di vari movimenti ambientalisti che, tra il 2015 e il 2016, sono riusciti a far partire una rilevazione a campione che ha evidenziato valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti dei comuni coinvolti. Nel 2018, il governo dovette dichiarare lo stato di emergenza, istituendo una zona rossa in ben 30 comuni e impartendo nell’area il divieto di consumo di acqua potabile. I manager della Miteni stanno rispondendo a processo di avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari. Pochi giorni fa, nonostante il ricorso presentato dalla Cgil, è stata ufficialmente archiviata dal Gip del Tribunale di Vicenza un’inchiesta parallela incentrata sulla morte di tre lavoratori dell’azienda (il primo deceduto nel 2006 per un linfoma non-Hodgkin e un carcinoma alla pleura, il secondo nel 2010 per un carcinoma polmonare, il terzo nel 2014 per un carcinoma uroteliale) e sulle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi, che erano stati esposti alle sostanze chimiche prodotte nelo stabilimento di Trissino. I vertici di Miteni erano accusati di omicidio colposo aggravato e lesioni colpose aggravate. Dopo l’archiviazione, rimane dunque in piedi il filone principale dell’inchiesta, già sfociata nella fase dibattimentale.
[di Stefano Baudino]