«Il cambiamento climatico e l’attività mineraria uccidono» si legge su uno dei cartelli innalzato a Panama da un manifestante, unitosi al corteo di protesta organizzato in seguito alla decisione del Governo di concedere ad una società canadese (la First Quantum Minerals) la possibilità di continuare a sfruttare la più grande miniera di rame a cielo aperto dell’America Centrale per altri vent’anni. Un contratto che alla fine l’esecutivo ha deciso momentaneamente di sospendere proprio grazie all’ondata di dissenso riversatasi per le strade. Il Presidente Nito Cortizo ha dichiarato di aver autorizzato l’emanazione di un decreto che vieta fin da subito qualsiasi progetto minerario, sia quelli futuri che quanti attualmente in cerca di permessi. Una mossa nelle intenzioni del presidente momentanea, che vorrebbe rimettere in discussione con un referendum, in modo da far valere l’intenzione della maggioranza.
In ogni caso, le proteste scoppiate nel Paese – che si trova sull’istmo che collega l’America centrale a quella meridionale – per via dell’accordo tra lo Stato e la società canadese (che dovrà pagare al governo almeno 375 milioni di dollari all’anno, anche se il prezzo del rame dovesse scendere) sono senza precedenti e fondate principalmente su due punti critici: il contratto sembra essere stato redatto senza che la comunità ne sia stata adeguatamente informata – anzi , gli attivisti sostengo che non sia stato neppure possibile consultare il documento – e approvato in tempi troppo brevi – in appena tre giorni. Un iter troppo frettoloso e lacunoso per un progetto che coinvolge una miniera di circa 12.000 ettari, situata su un’area protetta della provincia di Colón, e già sottoposto a undici denunce, sei indagini per possibili danni all’ambiente e al patrimonio storico e una sospensione per incostituzionalità.
D’altronde l’attuale atteggiamento del Governo non sembra essere in linea con quanto approvato nel 2022, quando l’esecutivo ha emanato una legge sui diritti della natura, garantendole il diritto “di esistere, persistere e rigenerarsi”, “conservare la biodiversità” e “di essere ripristinata dopo i danni causati, direttamente o indirettamente, dalla mano dell’uomo”. Un movimento legale che ha conferito a terra, alberi, fiumi, barriere coralline e montagne diritti simili a quelli previsti per gli umani, le società e i governi. La legislazione, dibattuta per più di un anno all’Assemblea nazionale di Panama e che comprende 18 articoli, ha in pratica riconosciuto nel mondo naturale “una comunità unica e indivisibile di esseri viventi, elementi ed ecosistemi interconnessi tra loro, con una propria serie di diritti intrinsechi” e, dall’altra parte, ha promesso di sviluppare piani decisionali, politiche e programmi che promuovano i diritti a livello internazionale, nel pieno rispetto della natura.
Un impegno, quest’ultimo, che non può coesistere con lo sfruttamento estremo e prolungato di una miniera di rame. L’estrazione dell’elemento, infatti, è piuttosto problematica per diversi motivi. È facile per esempio che l’acqua che circonda il sito si contamini, inquinando il resto delle falde sotterranee – con gravi conseguenze sulla fauna, sulla flora e sui terreni agricoli. Così come è piuttosto comune che anche l’aria finisca per ‘sporcarsi’, impregnata delle polveri sollevate dai macchinari. Per non parlare dell’enorme fossa necessaria a calarsi nelle profondità del terreno, così come del disboscamento che necessariamente precede la fase dello scavo.
Un enorme danno se si pensa che Panama vanta un territorio ricco di biodiversità, caratterizzato da vaste distese di foreste pluviali e mangrovie che ospitano oltre diecimila specie di piante e animali. Tenuto conto che, secondo il Global Forest Watch, dal 2002 al 2020 Panama ha già subito una drastica perdita di foresta primaria – circa 78,4 ettari, pari ad una diminuzione del 2,7% sul totale degli arbusti -, è bene che l’esecutivo riprenda la direzione imboccata con la legge sulla natura, quella cioè che alimenta la speranza di riuscire a ripristinare parte del territorio panamense.
[di Gloria Ferrari]
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