Ieri pomeriggio, la Commissione Parlamentare Antimafia ha ospitato la dirompente audizione di Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello di Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse), coda di un primo appuntamento andato in scena lo scorso 18 ottobre. Il legale dell’attivista, riallineando le scottanti vicende collegate alla morte del magistrato Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio, ha apertamente contestato le ricostruzioni effettuate nella medesima sede dal legale dei figli del giudice, Fabio Trizzino. Quest’ultimo, nelle scorse settimane, aveva voluto sgombrare il campo dalle riflessioni sulle presunte compartecipazioni esterne a Cosa Nostra di apparati deviati delle istituzioni negli attentati e sull’incidenza che la “Trattativa Stato-mafia”, inaugurata dal Ros dei Carabinieri tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, potrebbe aver avuto dietro l’omicidio Borsellino. Secondo Trizzino, infatti, il movente del delitto perpetrato il 19 luglio 1992 sarebbe l’interessamento mostrato da Borsellino verso il rapporto “mafia-appalti”, partorito dallo stesso Ros, poco prima della sua morte. Nel corso dell’audizione, Repici ha provveduto a dimostrare le numerose contraddizioni interne a tale ricostruzione, fornendo preziosi spunti sulle modalità con cui vennero effettuati gli attentati nella cornice del “biennio nero”, sui colpevoli ritardi di cui si sarebbe resa partecipe negli anni la procura di Caltanissetta, deputata a indagare sull’eccidio, e sulle contraddizioni che avrebbero caratterizzato le tesi attraverso cui i Ros hanno pubblicamente difeso la loro azione.
Le “ombre” nere e istituzionali
Già nel corso della precedente sessione, Repici aveva voluto mettere i puntini sulle i, sostenendo che, per cercare davvero la verità, la strage di via D’Amelio debba essere considerata «in un quadro ampio», sottraendosi a quel «fenomeno di negazionismo-revisionismo» che vorrebbe parcellizzare la lettura dei delitti eccellenti e delle stragi che hanno insanguinato lo Stivale dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta negando la presenza di apporti esterni ai mafiosi di Cosa Nostra. L’avvocato Repici ha dunque ripercorso tappe di storia fondamentali per giostrarsi negli angusti meandri dei retroscena delle stragi, facendo ad esempio riferimento al fallito attentato all’Addaura il 21 giugno 1989 ai danni di Giovanni Falcone, il quale per la prima volta parlò di “menti raffinatissime” che sarebbero state capaci di orientare la mafia dall’esterno. E, come testimoniato da alcuni collaboratori o diretti conoscenti del giudice, tra cui il giornalista Saverio Lodato, Falcone avrebbe parlato espressamente della figura di Bruno Contrada, allora numero 2 del Sisde, poi arrestato e condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (ma successivamente “salvato” dalla Cedu, che annullò gli effetti penali della condanna – non entrando nel merito delle condotte di Contrada, accertate dai giudici – perché, a suo parere, all’epoca il reato di concorso esterno non sarebbe stato adeguatamente codificato).
Repici ha poi fatto riferimento a un altro condannato per concorso esterno, Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e poi senatore di Forza Italia. Nello specifico, il legale ha ricostruito un tassello ormai accertato della storia recente italiana che riguarda le strategie politiche di Cosa Nostra dopo lo scoppio di Tangentopoli, quando la mafia decise di promuovere la nascita di un nuovo soggetto politico, “Sicilia Libera”, una forza di stampo meridionalista che Cosa Nostra, scevra dei suoi referenti politici tradizionali caduti sotto i colpi degli arresti e delle indagini del pool di Antonio Di Pietro, voleva utilizzare come “trampolino” per «passare tra gli equilibri della prima repubblica a quelli della seconda repubblica» attraverso la costituzione di una fedele rappresentanza in parlamento. Tale progetto politico sarebbe stato poi messo da parte dai vertici della mafia, che grazie ai pregressi rapporti con Dell’Utri avrebbero infine deciso di dare pieno appoggio a Forza Italia, che poi vinse le elezioni del ’94.
Repici ha evidenziato come gli «artefici» del progetto politico “Sicilia Libera”, poi naufragato, furono «Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella». Proprio questi tre elementi formarono il commando omicida che nel settembre 1992 avrebbero dovuto mettere al tappeto l’allora questore Calogero Germanà, che si salvò miracolosamente dall’attentato. Lo stesso Germanà che, insieme a Borsellino, si era occupato di uno dei maggiori esponenti della massoneria in Italia: quel Luigi Savona che un importante infiltrato, Luigi Ilardo, aveva indicato come il personaggio che «aveva curato l’ingresso della massoneria in Cosa Nostra» e il soggetto che aveva avviato l’indirizzo di Cosa Nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali e esponenti del mondo massonico». Tutti elementi «confermati dai successivi accertamenti giudiziari». Un’altra figura rilevante nella narrazione di Repici è poi quella di Pietro Rampulla, l’esperto artificiere di Cosa Nostra, esponente della mafia messinese direttamente collegato ai Santapaola di Catania, «che si occupò di imbottire di esplosivo il canale sotto la autostrada a Capaci» in vista dell’attentato in cui, il 23 maggio 1992, venne ucciso Giovanni Falcone. E Pietro Rampulla non fu solo un mafioso, ma anche un militante di Ordine Nuovo, organizzazione dell’estrema destra extraparlamentare protagonista della “Strategia della tensione” negli anni Settanta.
Le parole di Agnese Borsellino
Altro importante passaggio ha riguardato le rivelazioni fatte da Agnese Borsellino, moglie di Paolo, alcuni anni dopo la morte del marito ai magistrati in riferimento a una circostanza collocata temporalmente al 15 luglio ’92 (quattro giorni prima della strage), in cui il giudice le avrebbe confidato di aver «visto la mafia in diretta» e che una fonte terza gli aveva riferito che il capo del Ros Antonio Subranni fosse «punciuto», ovvero affiliato alla mafia. L’avvocato dei figli di Borsellino, Fabio Trizzino, aveva cercato di sviare il significato di quelle parole in Commissione Antimafia, sostenendo che la frase di Borsellino debba essere in realtà letta come «Ho visto la mafia in diretta PERCHÈ mi hanno detto che Subranni è punciutu». Insomma, secondo Trizzino la fonte delle preoccupazioni del giudice sarebbe da ricondurre non alla presunta contiguità a Cosa Nostra di Subranni, ma alle trame anti-Ros a cui la fonte del giudice (rimasta ignota) avrebbe in quel frangente preso parte. Repici, però, ha riallineato sapientemente i fatti, ricordando come Subranni, in un’intervista resa al Corriere della Sera successivamente all’uscita delle rivelazioni di Agnese Borsellino, «ebbe l’ardire di riferire che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché “si sa che è malata di alzheimer”». Consapevole, dunque, che fosse proprio lui il “bersaglio” di quelle parole. Pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’intervista, come ricordato da Repici, Agnese Borsellino «disse pubblicamente che le parole di Subranni non meritavano commento». A demolire la ricostruzione di Trizzino, insomma, sarebbero state secondo Repici le stesse parole di Agnese.
L’agenda rossa
Tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, come ci hanno raccontato i suoi congiunti e i suoi più stretti collaboratori, Paolo Borsellino utilizzò incessantemente un’agenda rossa, da cui non si separava mai, per mettere nero su bianco i suoi spunti investigativi più importanti. Un’agenda che fu trafugata dal perimetro della strage di Via D’Amelio lo stesso pomeriggio della morte del giudice e dei suoi agenti di scorta. Soffermandosi sul furto dell’agenda rossa, Repici l’ha definito la «frazione degli accertamenti della strage più vittima di trascuratezza e omissioni da parte degli uffici giudiziari». Mentre da un lato si proscioglieva in udienza preliminare sull’imputazione per furto dell’agenda rossa Giovanni Arcangioli – il carabiniere che una fotografia risalente al pomeriggio del 19 luglio ’92 ritrae con la borsa di cuoio del giudice in mano, intento ad allontanarsi dal luogo della strage – senza quindi avere un accertamento processuale dei fatti tramite una verifica dibattimentale, «non ha avuto analogo sviluppo in sede istituzionale» il grande lavoro fatto negli ultimi anni da un esponente delle Agende Rosse, Angelo Garavaglia, il quale era riuscito a ricostruire parte dei movimenti dell’agenda dopo aver raccolto documenti video che gli vennero rilasciati da una serie di operatori dell’informazione presenti sul posto. Infatti, ha detto Repici, l’autorità giudiziaria non ha successivamente provveduto a effettuare «un’acquisizione di tutta la documentazione in archivio» relativa ai video «raffiguranti i minuti e le ore successivi alla strage».
Il furto dell’agenda rossa rappresenta solo il primo tassello del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio, completato dal finto pentimento di Vincenzo Scarantino, il “balordo di quartiere” che, costretto con la forza dalla polizia ad andare davanti ai magistrati ad ammettere di aver effettuato una strage in cui in realtà non ebbe alcun ruolo, contribuì allo sviamento delle indagini. Tale azione depistante fu disinnescata solo dal 2008 in avanti, quando il vero esecutore materiale di quell’attentato, Gaspare Spatuzza (uomo dei fratelli Graviano, capi del mandamento di Brancaccio), decise di pentirsi e di smentire ufficialmente la ricostruzione di Scarantino. La sentenza “Borsellino-Quater”, nel 2017, ha sancito che ad avere un ruolo importante in entrambi i punti del depistaggio fu Arnaldo La Barbera, allora questore di Palermo. «Il 5 novembre del 1992 – ha spiegato Repici – l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera». Rivolgendosi alla Commissione, Repici ha detto: «Potreste essere voi la prima istituzione del Paese a riuscire a raccogliere in modo integrale tutta la documentazione video di quanto accadde in via D’Amelio».
Il rapporto “mafia-appalti”
L’audizione di Repici, anche e soprattutto in relazione a quanto avvenuto nelle scorse settimane in Commissione Antimafia, si è fatta esplosiva quando si è toccata l’annosa questione del rapporto “mafia-appalti”, l’informativa depositata dal Ros nel febbraio 1991 che si proponeva di fare luce sulle connessioni tra Cosa nostra e le forze politico-imprenditoriali dello Stivale. E che, ai tempi, fu oggetto di aspri veleni e incredibili fughe di notizie, nonché epicentro dello scontro tra gli uomini del Ros e la Procura di Palermo. Questa pista è considerata dall’avvocato dei figli di Borsellino come la causa scatenante della strage di Via D’Amelio. E non è un mistero che anche la Presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo (Fdi), che come Trizzino ha affermato di non aver «mai creduto» alla possibile pista sulla trattativa Stato-mafia – inaugurata proprio dal Ros dei Carabinieri tra il maggio e il giugno del 1992 sfruttando come intermediario per arrivare ai vertici mafiosi Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo –, la ritenga tale. Di tutt’altro avviso è invece Fabio Repici, che la giudica una vera e propria «menzogna»: «La causale mafia-appalti possiamo chiamarla una ‘pista palestinese’ su via D’Amelio», ha detto il legale, ricordando che «si è potuto apprendere dalle dichiarazioni pubbliche» di Mario Mori e Giuseppe De Donno (allora ai vertici del Ros) «il loro convincimento che quell’attività sia stata causa principale della strage di via D’Amelio», ma niente di tutto ciò è avvenuto «in sede processuale». Questo perché, ha detto Repici, «nelle varie occasioni in cui si sono ritrovati imputati, chiamati a rendere esame davanti ai giudici, come era loro legittima facoltà, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere». Dunque, «se davvero quei due ufficiali il 20 luglio 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d’Amelio fosse stata causata dall’interessamento di Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d’ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-1998», in quanto i due avrebbero «tenuta nascosta quella circostanza che solo a loro, nella loro versione, risultava, rifiutando di mettere al corrente l’autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via d’Amelio, cioè la procura di Caltanissetta, con la quale pure i due ufficiali, ai tempi in cui a guidarla era il Dott. Tinebra, ebbero eccellenti rapporti». Secondo Repici, insomma, «pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 è una cosa inenarrabile».
Ma c’è di più. Repici ne è certo: quando Mori e De Donno «tirarono fuori il discorso delle indagini mafia-appalti» non lo fecero «spontaneamente», ma per «legittimi interessi difensivi propri». Infatti, il 13 ottobre 1997, quando ancora mai nessuno aveva parlato all’autorità giudiziaria della questione “mafia-appalti”, Mori e De Donno vennero convocati come testimoni dalla Procura di Palermo. «De Donno – ricostruisce l’avvocato – venne sentito a sommarie informazioni» dai magistrati Caselli, Prestipino e De Lucia, che gli posero domande sulle «possibilità che anche per iniziativa di personaggi a loro vicini quelle indicazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa Nostra». In quell’occasione, «a 5 anni e due mesi circa dopo la strage di via d’Amelio», i magistrati «a brutto muso contestano al colonnello De Donno le circostanze a loro riferite dal collaboratore di giustizia Angelo Siino», esponente di Cosa Nostra che gestiva il sistema illegale degli appalti in Sicilia, che dopo aver deciso di pentirsi aveva «cominciato a parlare dei suoi rapporti con esponenti del Ros», da un lato delle connessioni con «alcuni sottufficiali grazie all’operato dei quali Cosa Nostra aveva conosciuto il contenuto di quelle investigazioni» e dei legami che Siino aveva avuto come confidente proprio con gli ufficiali del Ros che quelle indagini avevano curato». «Non mi si dica che è un caso: solo una settimana dopo, il 20 ottobre 1997, il colonnello De Donno scrive una nota al Procuratore Tinebra – dice ancora il legale di Salvatore Borsellino -, al quale segnala che ha circostanze da mettere a conoscenza della Procura per competenza motivata in relazione a condotte asseritamente illecite di magistrati della Procura di Palermo». Repici dà quindi la stoccata: «Se fosse vero ciò che egli riferì, poiché quelle circostanze erano note al colonnello de donno nel 1992 e negli anni successivi e poiché c’è un articolo del codice penale che punisce il pubblico ufficiale che avendone avuto notizia omette o ritarda di denunciare un fatto di reato, quella condotta del colonnello De Donno è la confessione del reato di cui all’art. 361 del codice penale». Insomma, per l’avvocato «mente chi ha il coraggio di dire che non c’è una diretta correlazione tra la convocazione di De Donno alla Procura di Palermo e la sua segnalazione alla Procura di Caltanissetta». In questo modo, rispetto a quanto raccontato dai Ros e da Trizzino, il quadro si ribalta.
L’appello di Salvatore Borsellino
Oltre all’avvocato Repici, che ha parlato davanti ai commissari per circa 2 ore e mezza, all’audizione ha preso parte anche Salvatore Borsellino, che già il 18 ottobre aveva tenuto un lungo intervento. Ieri Borsellino ha voluto lanciare un appello alle istituzioni, affermando che «una vera verità e giustizia sulle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese non può prescindere dal fatto che vengano messi in luce quali apparati hanno sottratto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, hanno cancellato il contenuto dei dischi del database di Falcone e hanno sottratto i documenti contenuti nella cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa». Secondo il fratello del giudice Paolo, infatti, da questo spaccato occorre partire «se davvero si vuole una vera verità e una vera giustizia e non una verità di comodo, confezionata per nascondere all’opinione pubblica altre terribili verità che mancano alla storia del nostro Paese o per l’esigenza di ripulire la storia del nostro Paese a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica». Ciò che è certo è che, stando a quanto sta accadendo in queste settimane, la Commissione Antimafia resterà l’agone in cui si giocherà una delle partite più importanti – anche a livello politico – per la ricerca della verità sulla morte di uno dei più illustri simboli della battaglia contro Cosa Nostra. Su cui, a 31 anni di distanza, mancano ancora gli elementi fondamentali.
[di Stefano Baudino]